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REPUBBLICA CENTRAFRICANA: LA DIFFICILE TRANSIZIONE VERSO LE ELEZIONI DI UN PAESE IN GUERRA CIVILE

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Lo scorso 20 gennaio il parlamento della Repubblica Centrafricana ha nominato presidente ad interim Catherine Samba-Panza, in sostituzione del dimissionario Michel Djotodia, al potere dal marzo 2013. Sessant’anni, un passato da donna d’affari e di recente sindaco della capitale Bangui, Samba-Panza ha il difficile compito di guidare il Paese verso le elezioni presidenziali previste per il primo trimestre 2015. Una missione che si presenta non semplice, considerata la guerra civile che sta insanguinando il Paese da un anno e che vede contrapposte, con alterne vicende, le milizie dei Seleka e degli Anti Balaka. A fare da sfondo alla crisi c’è la debole risposta della comunità internazionale e in particolare della Francia, il cui intervento sinora non è stato sufficiente a evitare l’escalation di violenza.

Fin dalla propria indipendenza datata 13 agosto 1960 la Repubblica Centrafricana ha vissuto fasi politiche travagliate, tra regimi dispotici e colpi di stato. Le prime elezioni politiche libere si sono tenute soltanto nel 1993 sotto la supervisione dell’ONU. In quell’occasione vinse Ange-Félix Patassé, che già aveva ricoperto ruoli istituzionali di rilievo durante la dittatura di Jean-Bédel Bokassa negli anni ‘70. Vincitore anche della tornata elettorale del 1999, Patassé ha visto però il proprio potere farsi sempre più instabile, minato alla base dalle ribellioni che nel 2001 hanno portato al tentato colpo di stato del generale François Bozizé. Quest’ultimo, dopo essere fuggito nel vicino Ciad per evitare la cattura, tornerà nel Paese l’anno successivo per riorganizzare la guerriglia che lo vedrà vincitore nel marzo 2003, quando riuscì a esautorare Patassé e prendere il controllo del governo. Dopo aver formalmente legittimato la presidenza vincendo le elezioni del 2005, Bozizé è stato il capo indiscusso della Repubblica Centrafricana fino a che all’orizzonte non è apparsa una nuova forza: quella costituita dai ribelli Seleka.

 

Le milizie Seleka

È grazie ai Seleka che Michel Djotoja è riuscito nella sua scalata alla conquista del potere. In seguito al fallimento dei negoziati di pace tra le opposizioni e i ribelli sempre più insofferenti al regime di Bozizè, i Seleka all’inizio del 2013 hanno infatti preso le armi e conquistato Bangui. Mentre François Bozizè fuggiva in Congo, il palazzo presidenziale veniva conquistato dagli insorti e il 25 marzo Djotodia si autoproclamava nuovo presidente della Repubblica Centrafricana.

Il movimento Seleka è un gruppo eterogeneo formato da più squadre di guerriglieri. È composto da un’alleanza (in lingua sango Seleka vuol dire proprio alleanza) tra i gruppi ribelli del Fronte Democratico per i Popoli dell’Africa Centrale (FDPC), la Convenzione dei Patrioti per la Giustizia e la Pace (CPJP) e l’Unione delle Forze Democratiche per l’Unità (UFDR), in cui sono presenti principalmente musulmani. Le milizie hanno poi incrementato le proprie file con la presenza di soldati jihadisti provenienti dai vicini Ciad e Sudan. I soldati islamici dopo aver assunto il controllo della capitale si sono abbandonati a violenze e saccheggi indiscriminati. Loro bersaglio sono stati religiosi cristiani e strutture come chiese e ospedali, ma non sono stati risparmiati anche civili occidentali che nel Paese hanno attività commerciali. Tra le vittime, anche alcuni soldati sudafricani impegnati nella capitale in una missione di peacekeeping per conto dell’Unione Africana.

 

L’intervento dell’ONU e le dimissioni di Djotodia

Di fronte all’escalation di violenze la comunità internazionale ha reagito, seppur non in modo tempestivo. Con le risoluzioni 2121 e 2127, approvate dal Consiglio di Sicurezza rispettivamente il 10 ottobre 2013 e il 5 dicembre 2013, l’ONU aveva chiesto il disarmo e lo scioglimento dei gruppi armati presenti nel Paese, lo svolgimento di elezioni legislative e presidenziali «libere, eque e trasparenti» entro 18 mesi dall’inizio del periodo di transizione come definito dalla Carta della Transizione entrata in vigore il 18 agosto 2013. Inoltre istituiva la Missione Internazionale di Sostegno nella Repubblica Centrafricana (MISCA), composta da soldati dell’Unione Africana, supportati da un contingente francese. Infine, affidava al BINUCA (l’Ufficio Integrato delle Nazioni Unite per il Consolidamento della pace nella RCA) il compito di assistere la fase di transizione politica verso le elezioni.

Considerate le pressioni internazionali e anche gli attriti con una parte dei militanti Seleka che gli avevano voltato le spalle, il presidente Djotodia il 10 gennaio scorso ha deciso di dimettersi. Nelle strade di Bangui centinaia di persone hanno manifestato il proprio entusiasmo di fronte alla notizia, ma chi riteneva che la situazione sarebbe presto migliorata si sbagliava. I militanti jihadisti, senza più l’appoggio presidenziale, si sono ritrovati allo sbando. Nel ritirarsi dalle città e dalle postazioni che occupavano, hanno lasciato spazio alle milizie animiste e cristiane degli Anti Balaka (anti machete, in sango) che in breve tempo hanno conquistato molti avamposti, sino ad acquisire il controllo effettivo sulla parte occidentale del Paese. Trovandosi in posizione predominante, hanno dato il via a un’operazione di pulizia etnica contro la popolazione musulmana inerme, colpevole, secondo i miliziani, di essere complice dei ribelli Seleka. Uno degli episodi più tragici è quello del villaggio di Bossemptele, dove il 18 gennaio scorso 100 civili musulmani sono stati trucidati dai guerriglieri. Secondo l’ong Human Rights Watch, l’intento degli Anti Balaka è proprio quello di eliminare la presenza musulmana (che costituisce il 15% della popolazione del Paese sui 4,5 milioni di abitanti totali).

Ma alla base del conflitto ci potrebbero essere cause più profonde e forte è il dubbio che la religione sia solo un pretesto. La RCA è uno dei Paesi più poveri del mondo ma il suo sottosuolo è ricco di giacimenti, in particolare diamanti ma anche oro e uranio. In gioco nel conflitto, quindi, non ci sarebbe solo la supremazia religiosa ma il controllo di tali ricchezze. Non è un caso che gli Anti Balaka, ad esempio, abbiano di recente assaltato una città come Yaloké, 200 km a Nord Ovest di Bangui, importante centro di commercio dell’oro estratto in quell’area.

 

Il difficile compito di Catherine Samba-Panza e gli interessi della Francia

Pochi giorni dopo le dimissioni di Djotodia, il parlamento centrafricano ha eletto come presidente ad interim Catherine Samba-Panza, che nel ballottaggio ha avuto la meglio su Desire Kolingba, figlio del dittatore che ha governato il Paese per 12 anni, dal 1981 al 1993. Il neo-eletto presidente in un’intervista all’emittente radiofonica France Inter ha chiesto alla Francia di non abbandonare il Paese. In risposta all’appello, il 28 febbraio il presidente francese François Hollande, in visita alle truppe francesi impegnate a Bangui nella missione di pace, ha ribadito l’impegno del proprio Paese affinché cessino le violenze e si apra la via del dialogo tra le forze ribelli.

La RCA ha per la Francia un’importanza strategica significativa, anche dopo la decolonizzazione i due Paesi hanno infatti mantenuto un solido legame, basta guardare la bilancia commerciale che vede la Francia come il principale partner per importazioni ed esportazioni. Le ricchezze nel sottosuolo del Paese, inoltre, rendono vitale un controllo diretto delle aree interessate per evitare ingerenze da parte di altre potenze come la Cina, i cui interessi economici in Africa costituiscono una spina nel fianco per l’Occidente. Proprio la Cina nel 2008 aveva acquistato dalla multinazionale del nucleare AREVA (di proprietà dello Stato francese) il 49% delle quote di UraMin, la società di estrazione che possiede la miniera di uranio di Bakouma. In quel periodo le aperture di François Bozizé verso Pechino devono aver destato più di una preoccupazione a Parigi. Un cablo risalente al 2009 dell’Ambasciatore statunitense pubblicato poi da Wikileaks rivela la “profonda frustrazione” dell’Ambasciatore francese a Bangui per l’atteggiamento del presidente, contestualmente proprio all’incremento delle operazioni commerciali dei cinesi nella RCA.

In quest’ottica assume rilevanza l’intervento francese per evitare ulteriori destabilizzazioni nel Paese. In ogni caso la strada per la risoluzione del conflitto non si presenta delle più agevoli. È necessario innanzitutto far rientrare al più presto gli sfollati nelle proprie case: secondo un rapporto di Amnesty International, nel corso di un anno circa 935.000 persone hanno lasciato le proprie abitazioni dall’inizio del conflitto. La situazione più drammatica è quella dell’aeroporto Mpoko, a poche miglia a nord-ovest di Bangui, dove migliaia di profughi si sono accampati per fuggire dalla guerriglia. Le condizioni igieniche precarie in cui si trovano, con accessi limitati a servizi igienici, cibo e acqua, espongono al rischio di epidemie le persone più deboli come bambini e anziani. L’operazione di rientro degli abitanti presenta delle difficoltà in quanto la paura di nuove violenze può essere difficile da rimuovere in chi ha ancora negli occhi i massacri dei miliziani. D’altro canto la messa in sicurezza dei villaggi evacuati non può dirsi ancora compiuta. Medici Senza Frontiere ha infatti denunciato il clima di terrore in cui vivono i civili, timorosi anche di spostarsi di poche centinaia di metri per raggiungere un ospedale a causa del rischio di attentati. Gli interventi di assistenza sono resi complicati dall’isolamento in cui si ritrovano alcune zone, come nel caso della prefettura di Bouar vicino al confine con il Camerun, dove una comunità musulmana di migliaia di persone è tagliata fuori dai soccorsi. L’intervento delle forze di peacekeeping non si è rivelato sufficiente, l’area Ovest del Paese dove gli Anti Balaka hanno il controllo totale infatti non è presidiata dalla missione. Se Samba-Panza riuscirà a essere il presidente di tutti e non governare invece un Paese unito sulla carta ma di fatto controllato dalla guerriglia locale, è quindi ancora tutto da vedere.

* Francesco Piscitelli, dottore in Scienze Politiche

fonti: Wikileaks, Public Library of US Diplomacy, 14 febbraio 2009
ONU, Consiglio di Sicurezza, Risoluzione 2123, 10 ottobre 2013
ONU, Consiglio di Sicurezza, Risoluzione 2127, 5 dicembre 2013
Amnesty International, Ethnic Cleansig and sectarian killings in the Central African Republic, 2014


GEOPOLITICA DEI MODELLI ISTITUZIONALI DEL MEDIO ORIENTE

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L’esportazione dei modelli giuridici europei nel mondo islamico

Uno dei principali frutti del colonialismo europeo nel mondo, ed in particolare nell’area compresa tra l’Africa settentrionale e l’Asia sudoccidentale (cosiddetto mondo islamico), è l’influenza dei due principali filoni giuridici (Common law e Civil law) in questa realtà eterogenea. A seconda dell’influenza esercitata dai governi europei sui vari Paesi islamici, quella nazione e quegli ordinamenti hanno assimilato le tradizioni giuridiche del sistema europeo. Ad esempio nei Paesi colonizzati dalla Francia (Marocco, Algeria, Tunisia) prevalgono le influenze di Civil law, mentre nei Paesi assoggettati dall’Inghilterra, ha prevalso il Common law. In altri contesti invece, non ha prevalso l’influenza del Paese colonizzatore o egemone, ma vi è stata la volontà di seguire alcuni giuristi o scienziati del diritto, piuttosto che centri scientifici o universitari. Ad esempio nell’Iran dell’epoca Qajaride (fine Ottocento primi Novecento), pur essendovi l’influenza politica ed economica inglese, si è imposta una cultura giuridica francese, in base al fatto che molti studenti iraniani, si recavano a Parigi per completare i propri studi, assimilando i meccanismi tipici di Civil law, piuttosto che quelli di Common law. Ancora oggi alcuni istituti, soprattutto nell’ambito del diritto civile e commerciale, nei codici iraniani, sono ripresi dalle leggi transalpine. La prima Costituzione approvata in Iran, nei primi anni del Novecento, subì una forte influenza dall’ordinamento francese e belga, pur essendo comunque a grandi linee di matrice islamica sciita. Nell’Impero ottomano prima, e nella Turchia poi, fu importante invece l’influenza del BGB tedesco (Codice civile). D’altronde in questi Paesi vi era radicata una cultura giuridica autoctona (“fiqh”, diritto islamico, nelle sue diverse forme, principalmente hanafita, malikita, shafiita e hanbalita per i sunniti e jafarita per gli sciiti), portando spesso a una sintesi tra gli ordinamenti europei e quelli indigeni.

I rapporti tra il mondo occidentale e il mondo islamico sono sempre stati al centro dell’analisi degli studiosi e degli intellettuali di ambo le culture. Ciò principalmente per la vicinanza geografica dei due mondi, rappresentati rispettivamente dal Nord America e dall’Europa per l’Occidente, e dall’Africa e dall’Asia per l’islam. Ovviamente questo non vuol dire che tutta l’Europa sia “bianca e cristiana” e che tutta l’Africa e l’Asia siano musulmane. In realtà, nel cuore dell’Europa vi sono importanti comunità islamiche, sia rappresentate da Stati “più o meno” nazionali (Bosnia, Albania, Kossovo), sia per la presenza di forti minoranze di religione islamica in Stati a maggioranza cristiana (Macedonia), ma anche per le recenti migrazioni di popoli afro-asiatici oltre il Mediterraneo. Lo stesso dicasi a parti inverse, ovvero in Africa, dove la componente musulmana è maggioritaria nel nord del “Continente nero”, mentre a sud la situazione è diversa. In Asia invece, l’islam è maggioritario dal Mar di Marmara fino al Turkestan cinese, dal Sinai fino all’Indonesia e dall’Asia centrale e dal Caucaso fino al Pakistan e al Bangladesh. Nel resto del continente, principalmente l’India e l’Estremo Oriente, la componente musulmana è minoritaria. Il confine geografico principale quindi tra l’Occidente e l’islam è il Mar Mediterraneo; questo “limes” naturale tra “noi” e “loro” rappresenta un punto di incontro (ma anche di scontro) per due delle principali civiltà oggi conosciute. Volendo però valutare l’importanza dei rapporti tra due civiltà, oltre le questioni culturali, bisogna valutare attentamente anche i fattori economici, religiosi, costituzionali e politici, e l’evoluzione storica che ha portato alla situazione attuale in cui, e purtroppo i notiziari ce lo ricordano tutti i giorni, i Paesi mediterranei e vicinorientali sono in preda a guerre e conflitti, sia per motivi interni, sia per le mire di alcune potenze extraregionali riguardo all’egemonia nella regione del “Grande Medio Oriente”. D’altro canto, la cosiddetta “Primavera araba”, ha dato ulteriore risalto al mondo arabo-islamico, soprattutto per ciò che riguarda i movimenti politici di questi Paesi. Così, sentiamo parlare di “islamisti”, “salafiti”, “liberali”, “laici”, “nazionalisti” in un contesto particolare senza renderci bene conto di cosa sono veramente questi movimenti, e soprattutto quale sia stata la loro origine ed evoluzione storica. Infatti, tutte le ideologie e i movimenti più importanti presenti nel panorama del cosiddetto Medio Oriente, nascono nell’Ottocento, principalmente come risposta al colonialismo anglo-francese, iniziato, nella sua forma “avanzata”, con l’avventura napoleonica in Egitto nel 1798. “Napoleone intendeva stabilire con quell’intervento, una base a Suez, dalla quale disturbare il traffico marittimo dell’Inghilterra verso le colonie asiatiche, principalmente l’India. L’incontro tra la moderna macchina da guerra francese e l’arretrata società egiziana fu un trauma per i musulmani, non solo in Egitto, ma in tutta la regione” (1), scrive a proposito Karen Armstrong. Quell’incontro, o per meglio dire quello scontro, tra l’Occidente e il mondo islamico rappresentò, suo malgrado, l’inizio di un dibattito tra gli intellettuali, i giuristi e gli studiosi di ambo le culture, per trovare da un lato i motivi dell’arretratezza sociale del mondo afro-asiatico, e d’altro canto per provare a dare delle risposte propositive per lo sviluppo del Medio Oriente. Le radici storiche dei movimenti sociali e costituzionali di questi ultimi tempi, vanno ricercate quindi nel XIX secolo. Capire la storia dei movimenti politici e costituzionali del mondo islamico ci aiuta a capire meglio i rapporti tra Occidente e islam, non solo per il passato, ma anche e soprattutto per il presente e il futuro.

Due tendenze costituzionali generali: islamismo e laicità

Le ideologie politiche e costituzionali del mondo islamico possono essere divise in due grandi famiglie: quella del fondamentalismo islamico o islamismo, e quella delle correnti laiche. Ovviamente all’interno di questi filoni vi sono diversi orientamenti, anche antitetici tra di loro. Questa infatti è una schematizzazione per uno studio scientifico, non un’analisi dettata da questioni pratiche. Altrimenti non si capirebbe perché nel contesto attuale, ma non solo, troviamo coalizioni politiche nei Paesi musulmani che riuniscono laici e islamisti, alleati tra di loro contro altri laici ed islamisti. Non bisogna dimenticare mai che teoria e pratica non sempre vanno d’accordo. Comunque, tornando allo schema generale, alcune delle caratteristiche che accomunano i movimenti costituzionali islamisti e quelli laici sono: la volontà di trovare una soluzione all’arretratezza economica e sociale del mondo musulmano rispetto all’Occidente, la promozione dello sviluppo scientifico, il consolidamento di istituzioni moderne, l’opposizione al colonialismo straniero. Le caratteristiche peculiari dell’islam politico in una prospettiva di diritto costituzionale sono: la coincidenza tra religione e politica, o quantomeno la non contrapposizione tra i due fattori, la volontà di creare uno Stato in base ai principi generali del diritto islamico, la tendenziale unità di tutti i Paesi islamici, il rifiuto del nazionalismo e del socialismo, anche in ambito giuridico. D’altro canto alcune caratteristiche salienti del pensiero laico, fortemente influenzato dal costituzionalismo europeo, nel mondo musulmano sono: divisione tra islam e politica, Stato laico e nazionalismo.
Nel mondo islamico di oggi, e soprattutto nel Medio Oriente, i modelli di riferimento possono essere ricondotti a quattro: l’Arabia Saudita, l’Egitto, l’Iran e la Turchia.

Arabia Saudita

Questo Paese è retto da un sistema teocratico, nel quale lo Stato è legittimato da Dio, dove il popolo ha un ruolo pressoché nullo per le attività politiche. Il Re è il capo dello Stato, ma anche capo del governo, e il Consiglio dei ministri è una sorta di assemblea famigliare della Casa reale, in quanto i ministri sono tutti parenti del sovrano. Il modello saudita si autodefinisce salafita, ovvero basato su una sorta di islam della “prima ora”, “puritano”, che rifiuta le “innovazioni” apportate dai giurisperiti islamici lungo i secoli. Nel mondo islamico attuale, questo è un modello di riferimento, per alcuni gruppi wahabiti e salafiti, che hanno accresciuto la loro influenza soprattutto negli ultimi anni, grazie al caos imperante nella regione.

Egitto

Questo sistema si basa su una sorta di coabitazione tra principi democratici e islamici. La Costituzione egiziana infatti, prevede la legittimazione democratica delle istituzioni, ma vi è anche una norma che prevede apertamente il diritto islamico come fonte principale dell’ordinamento statuale; inoltre, secondo la carta costituzionale egiziana, l’islam è la religione di Stato. Infatti al riguardo possiamo citare l’art. 2 della Costituzione del 1971, così come riformata nel 1980 e che poi è rimasta invariata dopo la cosiddetta “Primavera araba”, che definisce senza mezzi termini l’islam religione di Stato, la lingua araba lingua ufficiale e i principi della “sharia” (la legislazione islamica) fonte principale del diritto della Repubblica. Prima della recente modifica costituzionale, che sembra aver reso più “islamico” il sistema, anche la Siria era dotata di una Costituzione non dissimile da quella egiziana. Infatti ancora oggi, la Costituzione siriana prevede la legittimazione popolare delle istituzioni, ma con la precisazione che il Presidente della Repubblica deve appartenere alla religione islamica, senza dimenticare anche il fatto che il diritto islamico è comunque la fonte principale dell’ordinamento. Questo modello sembra diventare progressivamente quello più diffuso nel Nord Africa, una sorta di sintesi demo-islamica, che recentemente è stata recepita dalla Tunisia, anche se poi, ogni nazione parafrasa questi concetti a modo suo (2).

Iran

La Repubblica Islamica dell’Iran, è una forma di Stato “sui generis”, in quanto questo Paese, al contrario degli altri esaminati, è a maggioranza assoluta sciita, e non sunnita. Ciò è evidente anche nella forma di governo, caratterizzata per un modello che alcuni definiscono “democrazia religiosa” (in persiano “mardomsalari-e dini”). Il Paese è retto da un sistema dove ci sono elezioni, ma le norme dello Stato non possono essere in contraddizione rispetto ai canoni del diritto islamico sciita. Il capo dello Stato è un sapiente religioso, ma il Presidente della Repubblica è eletto a suffragio universale ogni quattro anni. Questo modello è ufficialmente seguito da alcuni movimenti politici del mondo sciita, soprattutto tra alcuni partiti iracheni e tra il movimento libanese Hezbollah, che nel suo statuto, richiede ai propri membri l’adesione al principio del governo islamico, così come delineato dalla Costituzione iraniana (teoria del governo del giurisperito islamico, in arabo “Wilayat al-Faqih”, che si concretizza nell’ubbidienza politica alla Guida Suprema della Rivoluzione, ovvero nel contesto attuale all’Ayatollah Ali Khamenei). Il modello iraniano è a legittimazione divina, ma prevede in concreto dei meccanismi, per ciò che concenre i rapporti tra i poteri dello Stato, simili alle democrazie, con un governo e un parlamento eletti direttamente dal corpo elettorale.

Turchia

Il modello turco è l’unico veramente laico del Medio Oriente; infatti, nella Costituzione della Repubblica turca, non vi è alcun richiamo alla religione islamica, sia per ciò che riguarda la religione di Stato, sia per ciò che concerne un’eventuale influenza del diritto islamico. Quello turco è indubbiamente il modello più influenzato dai modelli europei, essendo tipicamente laico, se non addirittura laicista, viste alcune evidenti discriminazioni religiose che subiscono i fedeli musulmani in quel Paese, anche se il governo Erdogan è riuscito a ridimensionare fortemente certi atteggiamenti, come il divieto delle donne di portare il velo in certi uffici pubblici. Paradossalmente, un fedele musulmano è più libero di professare la propria fede in un Paese cattolico come l’Italia, che non in uno musulmano come la Turchia. Il modello turco poi si caratterizza per un sistema con forti poteri da parte del Primo Ministro, ma comunque limitati dal parlamentarismo, influenzato a sua volta da una legge elettorale proporzionale con un’altissima soglia di sbarramento, che di fatto pregiudica l’ingresso in parlamento di molte forze politiche, anche se questa soglia di sbarramento, sembrerebbe garantire una certa stabilità ai governi turchi, soprattutto quelli dell’ultimo decennio. Alcuni movimenti islamisti del Nord Africa, hanno detto di rifarsi al modello turco, ma la realtà sembra essere diversa; i Fratelli Musulmani nordafricani e gli altri movimenti simili come Ennada in Tunisia, dal punto di vista istituzionale, sembrano più interessati al modello neo-egiziano, una sintesi di democrazia e islam, che non a quello completamente laico della Turchia, anche se, è bene ricordarlo, la forte instabilità regionale e la salita al potere del generale El-Sisi in Egitto, potrebbero nuovamente cambiare le carte in tavola. La geopolitica dei modelli istituzionali del Medio Oriente si rivela, esattamente come gli altri ambiti concernenti questa regione, molto instabile e soggetta a continui cambiamenti.

Ali Reza Jalali è dottorando in Diritto costituzionale presso l’Università di Verona

1- K. Armstrong, In nome di Dio. Il fondamentalismo per ebrei, cristiani e musulmani, Il Saggiatore, Milano, 2002.
2- Sul tema dei sistemi istituzionali e sulle legislazioni dei paesi arabo-mediterranei vedi Alessandro Ferrari (A cura di), Diritto e religione nell’Islam mediterraneo. Rapporti nazionali sulla salvaguardia della libertà religiosa: un paradigma alternativo?, Il Mulino, Bologna, 2012.

LA MONETA COMUNE EUROPEA NEL PENSIERO DI GIACINTO AURITI

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Nel 1977 Giacinto Auriti descriveva le linee guida per l’adesione ad una moneta unica europea. A distanza di trentasette anni le soluzioni del professore abruzzese sono ancora lontane dall’essere adottate dall’establishment tecnocratico europeo, ma rappresentano una prospettiva economica, politica e geopolitica necessaria per superare l’empasse politica e strutturale dell’Unione Europea.

Nel 1977, l’allora presidente della Commissione europea, il socialista britannico Roy Jenkins, strutturò una proposta per l’istituzione dell’Unione economica e monetaria (UEM), che fu adottata come Sistema monetario europeo (SME) nel 1979. Lo SME, patrocinato politicamente dal presidente francese Valéry Giscard d’Estaing e da quello tedesco-occidentale Helmut Schmidt, è l’antenato della Banca Centrale Europea.
Con puntuale e lucida visione pionieristica, il professor Giacinto Auriti, allora Presidente del Centro studi politici e costituzionali, nel dicembre dello stesso anno ha dato alle stampe il pamphlet “Principi ed orientamenti per una moneta europea”, per Marino Solfanelli Editore.
Auriti, riprendendo le analisi anti-usurocratiche di Ezra Pound ed elaborando un’innovativa teoria della moneta (la “teoria del valore indotto della moneta”) ha rivestito fino alla sua morte, avvenuta nel 2006, il ruolo di “economista eretico” rispetto agli studi economici “istituzionalmente riconosciuti”.
Nelle appena quindici pagine del pamphlet, l’autore riassume concetti economici, storici e geopolitici, esplicando quello che è il suo pensiero rispetto alla moneta comune europea, ben venticinque anni prima dell’entrata in circolazione dell’Euro.
Già docente universitario di materie giuridiche, Auriti fin dalle prime righe è esplicito: «la realizzazione di una moneta europea è un aspetto essenziale per l’unificazione politica del nostro continente» (1). Successivamente chiarisce che l’Europa è soggetto privo di sovranità, perché «allo stato attuale delle cose l’Europa – e non solamente l’Europa – è una colonia monetaria della Banca d’America e del F.M.I.» (2). La “questione sovranista” però non si risolve aderendo a tendenze scissioniste, vetero-nazionaliste o etnonazionaliste, come alcuni presunti adepti del professore abruzzese attualmente cercano di spacciare per soluzione del problema (accodandosi in questo caso al volere di speculatori internazionali come George Soros), bensì attraverso una più razionale e funzionale unificazione politico-economica del continente europeo: «l’autonomia e l’indipendenza monetaria europea deve altresì fondarsi su di un mercato organico, cioè autosufficiente delle materie prime fondamentali» (3). Auriti allora proponeva di sviluppare fonti di energia alternative al petrolio, come ad esempio il brevetto Dragoni per l’utilizzo dell’energia solare. Se al giorno d’oggi il petrolio risulta ancora un combustibile insostituibile e che un “futuro senza petrolio” risulta ancora una prospettiva sempre più lontana, forse utopica, va notato come siano numerosi i paesi, anche produttori, che lo integrano ad altre fonti energetiche, puntando sulla cosiddetta “energia verde”.

Nel pensiero auritiano il superamento della questione coloniale europea si raggiunge con un comune cammino politico ed economico: «L’Europa è sotto la spada di Damocle del grande usuraio […] L’unica risposta a questa aggressione della grande usura è la proprietà popolare della moneta, ovvero togliere la proprietà della moneta alla Banca Centrale (una società privata) e attribuirla ai popoli all’atto dell’emissione» (4). Questa asserzione, pilastro del pensiero sovranista di Auriti, non costituisce solamente un assioma economico, ma racchiude anche una prospettiva politica e geopolitica, come veniva confermato, poche righe sopra, dal seguente passo: «la storia, maestra di vita, ha insegnato che nel momento in cui l’Europa stava completando l’organicità del mercato con l’apertura ai mercati orientali, l’America è intervenuta nel Kosovo con il ridicolo pretesto di combattere il contrabbando del petrolio» (5).

Da un punto di vista macro-economico, il professore di Guardiagrele propone di sostituire il sistema entrato in vigore con gli accordi di Bretton Woods con un sistema in cui la moneta europea sia creata senza riserva monetaria: «conservare al dollaro la qualità di moneta di riserva, significa accettare esplicitamente una vera e propria subordinazione coloniale – si badi bene – non nei confronti del Popolo Americano, ma della Banca d’America» (6).

L’autosufficienza economica sbandierata da Auriti è una prospettiva geopolitica di ampio respiro, il Grande spazio europeo, indipendente e sovrano, che ritroviamo anche in Jean Thiriart: «Chi vuole la dignità d’Europa dovrebbe volere il suo potere, che vuole il potere in Europa, dovrebbe desiderare l’autarchia». L’autarchia, secondo Thiriart, non va confusa con il protezionismo, concetto diverso e opposto: «l’autarchia richiede un paese molto grande, un grande spazio, una grande popolazione, le materie prime di origine nazionale. L’obiettivo dell’autarchia è il potere, soprattutto il potere militare. Il protezionismo è un concetto completamente diverso. Il protezionismo è voluto dagli industriali, spesso per eludere le leggi della competizione, vale a dire la concorrenza, la scelta e la qualità» (7).

Ritornando al volume auritiano del 1977, è importante notare come l’economia non venga trattata come scienza neutra ed autonoma: «[il tema] presuppone a monte un discorso che deve necessariamente toccare aspetti di razionalità, di etica e culturali unificanti le civiltà dei popoli europei» (8). Il rischio dello status quo è che «lo strumento economico potrebbe impazzire nelle mani di chi lo adopera» (9), quello che, consapevoli o meno, sta accadendo ai tecnocrati che guidano la Comunità Europea. Ecco perché ai tecnici, quindi al sistema bancario, deve essere sottratta la competenza della creazione della moneta, restituendola al potere politico. Diventano quindi i cittadini a creare il valore della moneta, accettandola come sistema di pagamento.
Le righe vergate trentasette anni fa da Auriti denunciano lo scollamento tra la classe politica e la sovranità monetaria (delegata alle tecnocrazie bancarie), problema tutt’ora scottante anche se sottaciuto, come conferma questo passo di Giacomo Gabellini: «uno dei problemi più rilevanti puntualmente sottratti a qualsiasi discussione è rappresentato dal fatto che con l’istituzione della Banca Centrale Europea è stato replicato il “modello italiano”, che nel 1981 venne attuato allo scopo di sottrarre alle dirigenze politiche il potere di decidere gli investimenti pubblici, affidando il controllo della moneta alle ambiziose e rampanti tecnocrazie che, cavalcando il mantra liberista, miravano a penetrare nei centri nevralgici dello Stato» (10).
La necessità di non abbandonarsi ad un vuoto populismo gettando “il bambino con l’acqua sporca” e, quindi, denunciando la moneta comune europea come il “male assoluto” sbandierando il ritorno alle monete nazionali come unica cura salvifica alla crisi economica della “colonia europea”, è così decisamente scongiurato: «i cosiddetti “euroscettici” ritengono che la tanto decantata solidarietà tra Paesi membri sia presente solo nella vacua e ridondante retorica degli “europeisti” di Bruxelles. Questa tesi, non priva di fondamento, è però viziata dal limiti di confondere l’euro, che è una delle valute adottate nel “vecchio continente”, con l’Unione Europea, che è una costruzione squilibrata e alquanto discutibile» (11).

*Marco Bagozzi (Trieste 1983) è laureato in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Trieste. È autore di Nazionalbolscevismo. Uomini, storie, idee (Noctua 2012), Con lo spirito Chollima (Chollima Football Fans 2012), Vincere con Gengis Khan (Anteo 2014) e Patria, popolo e medaglie, (Anteo 2014).

NOTE:

1)Giacinto Auriti, Principi ed orientamenti per una moneta europea, Solfanelli, Chieti 1977, p. 3

2) Ivi, p. 10

3) Ivi, p. 13

4) G. Auriti, Il paese dell’utopia. La risposta alle cinque domande di Ezra Pound, Tabula Fati, Chieti 2002, p. 26

5) ibidem

6) G. Auriti, Principi ed orientamenti per una moneta europea, op. cit., p. 9

7) G. Auriti, Principi…, p. 3

8) Bernardo Gil Mugarza, Entrevista a Jean Thiriart (1983), www.red-vertice.com/disidencias/textosdisi28.html

9) Ibidem

10) Giacomo Gabellini, Shock. L’evoluzione del capitalismo globalizzato tra crisi, guerre e declino statunitense, Anteo, Cavriago 2013, p. 203

11) Ivi, p. 199

DAL MOVIMENTO 5 STELLE AL MONDO 5 STELLE?

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In un video messaggio di Casaleggio Associati si preconizzava una guerra tra l’Occidente, con la sua «democrazia diretta e del libero accesso a internet», ed il blocco sostituito da «Cina, Russia e Medio Oriente»: da siffatti presupposti e ripercorrendo le vicende risorgimentali italiane, nonché le tensioni internazionali che hanno interessato la massa eurasiatica quanto meno a partire dal XIX secolo, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo assume in effetti una connotazione inedita, corroborata dagli attestati di stima provenienti da strutture legate a doppi filo con le centrali di potere statunitensi.

A che serve l’Italia?

Lo sbarco di Grillo in Sicilia, effettuato a nuoto, fu la prova più eloquente che il comico stava facendo sul serio. Neanche la scelta del luogo poteva dirsi casuale: da ormai due secoli ogni cambiamento politico d’Italia ha preso piede proprio dalla Sicilia. La situazione attuale ha molti punti di contatto con i carbonari, volti ad eliminare la tutela della Santa Alleanza (degli imperi d’Austria e Russia) sull’Italia grazie al sostegno inglese. L’Austria all’epoca si considerava erede del Sacro Romano impero della Nazione Germanica, abolito nel 1806, ma allo scettro del quale gli Asburgo rinunciarono solo dopo la sconfitta subita dai prussiani nella guerra del 1866. Contestualmente l’Italia ottenne il Veneto, ma Venezia perse l’Istria e la Dalmazia. Il leone marciano continuò a sventolare a Corfù, capitale del protettorato britannico dello Stato Ionio, anche se ridotto ad un tassello posto sul battente dell’Union Jack (1).

Ma perché gli inglesi sostennero i rivoluzionari italiani? La risposta è puramente pragmatica, l’assetto scaturito dal Congresso di Vienna era volto a creare una serie di Stati cuscinetto in modo da prevenire eventuali rigurgiti rivoluzionari in Francia, mentre l’Austria e l’Impero ottomano ebbero il compito di contenere l’espansionismo russo nel Mediterraneo, tanto che in seguito all’implosione della Russia del 1917 entrambi persero la loro vera ragion d’essere (2).

L’Austria iniziò a perdere il sostegno inglese dopo i moti del 1821, in quanto a Londra ci si rese conto che l’oppressione cui era soggetta l’Italia sarebbe necessariamente sfociata in una rivoluzione dagli esiti imprevedibili. In Italia la cura teutonica, insomma, era peggio del male che essa doveva curare, tanto valeva assecondare un processo rivoluzionario per non restare sopraffatti dagli eventi. A partire del 1821 gli inglesi iniziarono ad appoggiare i rivoluzionari nel Regno delle Due Sicilie, ma anche la Grecia col trattato di Londra ottenne l’indipendenza dopo una sanguinosa guerra civile durata sostanzialmente dal 1823 al 1836. Il processo avrebbe poi innescato nei Balcani una reazione a catena, nota come “Questione Orientale”, vale a dire la decomposizione pilotata dell’Impero ottomano, ormai palesemente incapace di contenere la spinta russa. Il processo assomigliò molto a quella che sarebbe poi stata la decolonizzazione in Africa del XX secolo: la Francia emancipò la Romania, la Russia la Bulgaria, mentre Serbia e Montenegro divennero una specie di condominio austro-russo che non trovò mai un assetto geopolitico stabile, anzi, l’attentato di Sarajevo del 1914 si rivelò fatale ad entrambi gli imperi, zarista ed asburgico.

Gli inglesi si mossero in Grecia non tanto per osteggiare il sultano quanto per impedire un’affermazione russa nella penisola. In Italia la minaccia di uno sfondamento russo restava remota finché la Penisola restava protetta dall’argine balcanico, ma è il Regno di Napoli che gli inglesi, a partire dagli anni ’30, tengono d’occhio (3). Quando le rivoluzioni scoppiarono nel 1848 in tutta Europa, spazzando via l’influenza austriaca dall’Italia, gli inglesi tolsero l’appoggio ai rivoluzionari. La cosiddetta “Primavera dei popoli”, anziché liberare polacchi, ungheresi e italiani dal giogo austriaco, avrebbe imposto loro uno tedesco in via di formazione all’assemblea nazionale di Francoforte. Al posto di un’Austria sarebbe nata una Grande Germania dal Baltico all’Adriatico. Perciò Palmerston decise di tenersi alla larga dall’appoggiare i rivoluzionari in Germania, Italia e Ungheria (4), preferendosi accordare con lo zar di Russia, soprattutto per paura di perdere la Danimarca che nella Slesia e Holstein controllava gli accessi del Baltico che per l’Inghilterra restavano strategici (5). L’esito delle rivoluzioni del 1849 pertanto andava nella direzione auspicata da Londra: le grandi potenze europee restavano intatte ma litigiose e la Slesia e l’Italia meridionale non costituivano più un oggetto di allarme. Con la prospettiva della nascita di una nuova potenza rivoluzionaria in Europa la cui fede antirussa sarebbe stata tutta da dimostrare, le rivoluzioni del 1848 furono lasciate a se stesse.

L’assetto successivo al 1848 era ancora più problematico e foriero di rischi: i risvegliati nazionalismi slavi ora si stavano spontaneamente rivolgendo alla grande madre Russia la quale aveva rafforzato di molto la sua presenza politica e commerciale nei Balcani e nel Mediterraneo, facendo leva su Napoli (6). I rischi di una marea russa all’insegna del panslavismo furono prontamente riconosciuti e contrastati da una inedita alleanza franco-inglese, impegnata nella lunga e logorante guerra di Crimea (1853–1856).
Sarà la guerra di Crimea a segnare lo spartiacque, ridisegnando la carta politica dell’Europa per i decenni a venire (7). L’Austria rimase neutrale e Napoli sostenne i russi, confermando i peggior sospetti inglesi. Il regno sabaudo poté così procedere con il suo progetto di espansione sulla penisola, dopo che il piano dei Savoia di ascesa sul trono di Spagna era fallito (8). I francesi erano disposti a sostenere l’espansione del Piemonte nel nord fino a Trieste, una riedizione del Regno d’Italia napoleonico del 1806. Gli inglesi volevano molto di più, anzi volevano un’altra cosa: la messa in sicurezza del Regno di Napoli (9). Dopo la sconfitta della Francia a Sedan del 1870 il piano inglese non ebbe più ostacoli: Roma divenne la capitale di un’Italia unita da Nord a Sud (10). L’Ungheria ottenne Fiume collegata a Budapest con una ferrovia finanziata dai Rothschild, finalizzata al contenimento militare della Russia (11). L’Austria, ormai rivelatasi incapace e inadeguata allo scopo che le era stato assegnato nel 1815, poté così rilassarsi ad un declino del quale la fioritura culturale fu la sua manifestazione più notevole e duratura.

A che serve Grillo?

Un importante video-messaggio di Casaleggio Associati prefigurava una guerra tra l’Occidente, con la sua « democrazia diretta e del libero accesso a internet» e « Cina, Russia e Medio Oriente». Casaleggio individuava una partizione primordiale tra un mondo libertario atlantico e individualista mediterraneo, contrapposto all’enorme blocco continentale euroasiatico, un grande spazio (Grossraum) a vocazione totalitaria, che oggi vede comprendere Russia e Germania, alle quali si associa la Cina. Uno scontro combattuto sul fronte delle coscienze, piuttosto che una campagna volta alla conquista del territorio, una guerra civile di proporzioni circumplanetarie che durerà decenni. Casaleggio ha già dimostrato doti di pura genialità e purtroppo temo che abbia visto giusto.

Lo scontro per l’area pivot del globo, già prefigurato da Mackinder nel 1902 (12), poco dopo divenne teatro di due guerre mondiali: la prima combattutasi in Europa dal 1908 al 1948 e la seconda combattutasi in Asia dal 1912 al 1952 (13). Al termine dei due conflitti mondiali, entrambi durati quarant’anni, il Grossraum euroasiatico divenne comunista, forse perché l’ideologia del socialismo scientifico giustificava e facilitava la via autoritaria come risposta alle carenze di sviluppo infrastrutturale ed economica del pivot. Non è un caso che il padre del comunismo fosse tedesco e che per decenni l’ideologia marxista si diffuse di pari passo all’influenza economica tecnologica e culturale della Germania guglielmina. Entrambi i conflitti iniziarono con gli inglesi impegnati a contenere i tedeschi, che a loro volta sostennero Sun Yat Sen e Lenin e finirono con Stalin e Mao contrapposti al containment americano (14).

Dopo che l’area pivot di Mackinder era stata attaccata dalla forza bruta americana a partire dal settembre 2001 abbiamo assistito nel Nord Africa ad una nuova stagione di conflitti tra mare e terra. Casaleggio ha la vision dello scontro planetario. Se può pensare una guerra allora può anche combatterla. A sostegno della sua strategia Casaleggio dispone di un’ideologia (la sovranità dell’individuo, la supremazia della conoscenza sul possesso, l’informazione come arma strategica rispetto alla tecnica del suo controllo). Il suo è il primo movimento politico nativo digitale che anche grazie a Grillo ha dimostrato di poter funzionare.

Il M5S oggi, a differenza degli altri partiti italiani, dispone di una visione geopolitica, di un’ideologia politica e di una capacità di realizzazione tecnica. Se questo fosse vero allora la posta in gioco che si apre col M5S è molto più ampia di quanto possa sembrare. Esso apre, anzi definisce, una linea di faglia planetaria e pertanto verso di lui si riverseranno risorse materiali e morali di ampia portata.

L’establishment angloamericano, dal nobel Stigliz alla direzione strategica – e quindi politica – di Jim O’Neill della Goldman Sachs (15) hanno pertanto espresso l’endorsment per un movimento che solo superficialmente è una federazione di lazzaroni virtuali (16). Le implicazioni del M5S cessano di essere contingenti alla realtà politica italiana.

L’Italia è probabilmente l’unico paese al mondo che ha vissuto in prima linea il crollo del Muro, le guerre balcaniche, le rivoluzioni africane, ma anche la riaffermazione del Grossraum euroasiatico. Qualcosa di simile accadde già nel primo dopoguerra, quando il Paese si trovò sulla linea di faglia causata dal crollo degli imperi zarista, asburgico ed ottomano. Ne risultò il fascismo di Mussolini che come modello politico universale di contenimento del comunismo – e quindi del Grossraum euroasiatico – fu esportato in tutti i continenti: dall’Europa degli anni Trenta, all’Asia degli anni Quaranta e infine all’America Latina degli anni Cinquanta.

*William Klinger (Fiume 1972) ha un Master in Scienze Politiche alla Central European University di Budapest, è PhD presso l’European University Institute di Firenze, ricercatore della Lega Nazionale di Trieste e del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, nelle cui collane ha scritto numerosi saggi, così come per la rivista della Società di Studi Fiumani di Roma “Fiume. Rivista di studi adriatici”; collabora con giornali e fondazioni scientifiche in Slovenia, Croazia e Serbia.

NOTE

1) Henry Jervis-White-Jervis, History of the Island of Corfú and of the Republic of the Ionian Islands, Londra, 1852.

2) Per un quadro d’insieme si veda l’eccellente articolo di Brock A. Millman, A Counsel of Despair: British Strategy and War Aims, 1917-18, in “Journal of Contemporary History”, n. 2, anno 2001, pp. 241-270.

3) Margaret Lamb, The Making of a Russophobe: David Urquhart: The Formative Years, 1825-1835, in “The International History Review”, n. 3, anno 1981, pp. 330-357. David Urquhart, dopo il periodo formativo venne inviato come plenipotenziario britannico a Belgrado e divenne lo stratega politico inglese del contenimento antirusso. Sul suo periodo belgradese vedi Čedomir Antić, Velika Britanija, Srbija i Krimski rat, 1853-1856: neutralnost kao nezavisnost, Belgrado, 2004.

4) Cfr, Eugene Horváth, Kossuth and Palmerston (1848-1849), in “The Slavonic and East European Review”, n. 27, anno 1931, pp. 612-631.

5) John Stuart Woolf, La storia politica e sociale, in “Storia d’Italia Einaudi”, vol. III (Dal primo Settecento all’Unità), Torino 1973, pp. 388 – 389.

6) Sui legami tra Russia e Napoli si vedano le fondamentali opere di Vincenzo Giura: Russia, Stati Uniti d’America e Regno di Napoli nell’ età del Risorgimento, Napoli, 1967; “La marina napoletana in Mar Nero dal 1841 al 1860”, in Studi in memoria di Luigi Dal Pane, Bologna, 1982.

7) Sul ruolo di Cavour nella guerra si veda il classico di Franco Valsecchi, Il Risorgimento e l’Europa : l’alleanza di Crimea, A. Mondadori, 1948. Estremamente attivo fu il capo della legazione britannica a Torino, Sir James Hudson. Harry Hearder, Clarendon, Cavour, and the Intervention of Sardinia in the Crimean War, 1853-1855, in “The International History Review”, n. 18, anno 1996, pp. 819-836.

8) José Ramón Urquijo Goitia, Crisis de las relaciones hispano-sardas: de la cuestión sucesoria a la guerra contrarrevolucionaria, in “Rassegna storica del Risorgimento”, n. 4, anno 2003, pp. 499-536. Il piano fu caldeggiato soprattutto dal conte Clemente Solaro della Margherita uno dei più convinti assertori della controrivoluzione e stratega politico del Piemonte prima della rivoluzione del 1848.

9) Per sostenere la loro progettata operazione mediterranea i russi fondarono una società di navigazione mediterranea. Cfr. W. E. Mosse, Russia and the Levant, 1856-1862: Grand Duke Constantine Nicolaevich and the Russian Steam Navigation Company, in “The Journal of Modern History”, n. 26, anno 1954, pp. 39-48. Il Regno di Napoli aveva forti rapporti commerciali con la Russia e lo zar fu il suo principale difensore sul piano diplomatico. F. A. Simpson, England and the Italian War of 1859, in “The Historical Journal”, n. 5, anno 1962, pp. 111-121.

10) Sia Palmerston che lord Russell furono interessati che l’indipendenza dell’Italia fosse mantenuta fino all’annessione di Roma. O.J. Wright, British representatives and the surveillance of Italian affairs, 1860-70, in “The Historical Journal”, n. 51, anno 2008, pp. 669-670.

11) Mi permetto di rimandare a William Klinger, “Dall’autonomismo alla costituzione dello Stato – Fiume 1848-1918”, in Forme del politico. Studi di storia per Raffaele Romanelli, a cura di Emmanuel Betta, Daniela Luigia Caglioti, Elena Papadia, Roma , 2012, pp. 45 – 60.

12) Per Mackinder (1861 –1947) la Russia avrebbe dominato l’isola eurasiatica grazie ai nuovi trasporti che collegavano l’immensa massa territoriale eurasiatica. Tale trasformazione metteva in crisi il fondamento della geopolitica britannica fondata sul dominio del mare che non rappresentava la via più veloce per spostarsi. Halford John Mackinder, “The Geographical Pivot of History”, in Geographical Journal, n. 4, anno 1904, pp. 421 – 437.

13) Anche a Trieste la guerra mondiale sarebbe durata esattamente quarant’anni: dal 1914 al 1954.

14) Sul sostegno tedesco a Sun Yat Sen vedi: Joseph Fass, Sun Yat-sen and Germany in 1921-1924, in “Archiv Orientalni”, n. 36, anno 1968, pp. 134-48. Roland Felber & Hübner, Rolf, Chinesische Demokraten und Revolutionäre in Berlin (1900-1924), in “Wissenschaftliche Zeitschrift der Humboldt-Universität zu Berlin”, n. 2, anno 1988, pp. 148-156. Roland Felber, Sun Yatsen und Deutschland. Zum Platz Deutschlands im gesellschaftspolitischen Denken Sun Yatsens, in “Wissenschaftliche Zeitschrift der Humboldt-Universität zu Berlin. Sonderheft: Zur Geschichte der deutsch-chinesischen Beziehungen (1900-1949)”, n. 2, anno 1988, pp. 121-135 e 136-147. Sull’appoggio del Comando Supremo tedesco a Lenin si veda Dmitri Volkogonov, Lenin: A New Biography, New York, 1994.

15) Goldman Sachs, «entusiasmo» per il M5S, Corriere della sera, 2 marzo 2013.

16) Interessante anche l’intervista a Casaleggio fattagli dal fondatore della rivista Wired: Bruce Sterling, “La versione di Casaleggio”, Wired, agosto 2013. Bruce Sterling ha vissuto diversi anni a Belgrado con la moglie Jasmina Tešanović, prima di trasferirsi a Torino nel 2007.

 

LE SFIDE NEL NUOVO EGITTO

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Cosa sta succedendo in Egitto negli ultimi mesi? È di questi giorni la notizia di un attentato terroristico a Taba contro un pullman di turisti sudcoreani che dal monastero di Santa Caterina, nella penisola del Sinai, si dirigeva verso il confine israeliano. L’attacco rivendicato dal gruppo terrorista Ansar Bayt al-Maqdis, che ha causato quattro morti, è un gesto di sfida alla campagna militare condotta dall’esercito egiziano contro le basi terroristiche nella regione[1]. L’Egitto ha, infatti, chiuso la frontiera con Israele e rafforzato i posti di blocco di polizia ed esercito su tutte le strade della penisola. Il governo ha anche decretato temporaneamente lo stato di emergenza nel tunnel che passa sotto il Canale di Suez.

La penisola è sotto l’attacco dei terroristi che hanno compromesso due pilastri dell’economia egiziana: il turismo ed il gas. A gennaio, infatti, il gasdotto che attraversa la penisola è stato fatto saltare quattro volte ed un quinto tentativo è stato sventato a metà febbraio.
Solo poche settimane fa almeno sedici militanti islamici sono statiuccisi in una serie di raid aerei dei militari egiziani nella regione che ha una grande rilevanza strategica, poiché congiunge il continente africano con quello asiatico. Oggetto di contesa nella Guerra dei Sei Giorni, tra Israele ed Egitto, la penisola del Sinai è ritornata sotto la sovranità egiziana nel 1978 nell’ambito degli Accordi di Camp David.

Ad annunciare l’operazione militare è stato il portavoce delle Forze armate egiziane, il colonnello Ahmed Mohammed Ali, spiegando che i raid hanno preso di mira i nascondigli di “terroristi takfiri estremamente pericolosi”, in particolare nella città frontaliera di Sheikh Zuweyid. Il portavoce ha descritto gli obiettivi del raid come “terroristi affiliati ai Fratelli Musulmani”, le cui attività sono bandite in Egitto, in seguito al colpo di Stato militare che ha rovesciato il presidente ed esponente dei Fratelli musulmani, Morsi.
Nella città frontaliera in questi ultimi anni sono penetrati gruppi islamici che, sotto le insegne dell’entusiasmo generale sortito dalla “Primavera Araba” e grazie all’accondiscendenza dell’onnipresente Occidente, si sono manifestati nel 2011 attraverso le proteste contro il regime di Mubarak in Egitto, così come per Gheddafi in Libia, per poi mostrare il proprio inquietante disegno di un Islam deviato e sempre più lontano dagli insegnamenti del Profeta Maometto: è attribuita ad un gruppo Salafita, infatti, l’esplosionenella stessa città di Sheikh Zuweyd di un tempio sufi nel maggio del 2011.

Ma chi sono i Salafiti e cosa si propongono di fare?
Ritornare al puro Islam dei “pii antenati” (as-salaf as-sâlihîn), facendo piazza pulita della tradizione scaturita dal Corano e dalla Sunna nel corso dei secoli: è questo il programma della corrente islamica riformista che ha i suoi capostipiti nel persiano Jamal ad-Din al-Afghani (1838-1897), iniziato nel 1878 alla massoneria in una loggia di rito scozzese del Cairo. Di loro ed in particolar modo dell’egiziano Muhammad ‘Abduh, discepolo di Din al-Afghani, diceva Lord Cramer, uno dei principali architetti dell’imperialismo britannico nel mondo musulmano, nella seconda metà del 1800: “Sono i naturali alleati del riformatore occidentale, meritano tutto l’incoraggiamento e tutto il sostegno che può esser dato loro”.

Tra gli altri discepoli di al-Afghani, l’indiano Sir Ahmad Khan sosteneva che “il dominio britannico in India è la cosa più bella che il mondo abbia mai visto” ed affermava che “non era lecito ribellarsi agli inglesi fintantoché questi rispettavano la religione islamica e consentivano ai musulmani di praticare il loro culto”.
Dopo ‘Abduh, capofila della corrente salafita fu Rashid Rida, che in seguito alla scomparsa del califfato ottomano progettò la creazione di un “partito islamico progressista” in grado di creare un nuovo califfato. Nel 1897 Rashid Rida aveva fondato la rivista “Al-Manar”, la quale, diffusa in tutto il mondo arabo ed anche altrove, dopo la sua morte verrà pubblicata per cinque anni da un altro esponente del riformismo islamico: Hasan al-Banna (1906-1949), il fondatore dell’organizzazione dei Fratelli Musulmani.

Ma, mentre Rashid Rida teorizzava la nascita di un nuovo Stato islamico destinato a governare la umma, nella penisola araba prendeva forma il Regno Arabo Saudita, in cui vigeva un’altra dottrina riformista: quella wahhabita.
La setta wahhabita trae il proprio nome dal patronimico di Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792), che si appassionò agli scritti di un giurista letteralista vissuto quattro secoli prima in Siria e in Egitto, Taqi ad-din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328), che ha accusato più volte il Sufismo di eterodossia ed è ritenuto il “padre del movimento salafita attraverso i secoli”. Seguendo le sue orme, Ibn ‘Abd al-Wahhab e i suoi partigianiconsiderarono come manifestazioni di politeismo la fede nell’intercessione dei profeti e dei santi e considerarono colpevoli della deriva politeista islamica, anche quei musulmani trovati ad invocare il Profeta Muhammad o a pregare vicino alla tomba di un santo. I wahhabiti attaccarono le città sante dell’Islam sciita, saccheggiandone i santuari; impadronitisi nel 1803-1804 di Mecca e di Medina, demolirono i monumenti sepolcrali dei santi e dei martiri e profanarono perfino la tomba del Profeta; misero al bando le organizzazioni iniziatiche e i loro riti; taglieggiarono i pellegrini e sospesero il Pellegrinaggio alla Casa di Dio[2].

Rientra in quest’ottica l’esplosione avvenuta nel 2011 nel santuario sufi di Sheikh Zuweyid e rivendicata dai salafiti. Una sistematica distruzione di luoghi di culto islamici che ospitano le spoglie di personaggi considerati “santi” dalle popolazioni locali, il cui culto è considerato “blasfemo” dalla galassia dei “modernisti” islamici, dei “salafiti”, loro eredi e dei “wahhabiti”.

A Timbuctu, città santa del Mali, (patrimonio mondiale dell’umanità per l’Unesco) tali gruppi hanno distrutto moschee e santuari, dopo aver preso il controllo della città.In Libia, dove oggi i ministri vengono rapiti, le infrastrutture civili e militari sono assediate, gli ufficiali ed i dirigentistranieri vengono sequestrati e spesso eliminati, hanno distrutto la moschea-mausoleo di ‘abd as-Salam al-Asmarche conteneva circa 5.000 volumi finiti in cenere. A Tripoli hanno demolito un altro importante luogo di culto islamico, il santuario di Sidi Ahmed az-Zarruq trafugando una salma[3].

Qui, i Fratelli musulmani hanno giocato un ruolo importante, organizzando l’opposizione a Mu‘ammar el-Gheddafi e approfittandosi del suo rovesciamento da parte della NATO. Così come in Egitto hanno avuto un ruolo fondamentale nella caduta di Mubarak, riuscendo ad ottenere addirittura la presidenza del Paese, seppur attraverso l’occupazione militare dei seggi elettorali ed il 65% di elettori astenuti. Il tutto sotto la copertura degli osservatori internazionali inviati dagli Stati Uniti e dall’Unione europea. In Sirial’organizzazione, insieme ai salafiti, è stata fondamentale per la destabilizzazione del Paese sin dall’inizio del conflitto armato.

Un’azione che ha visto una coerente e ripetuta unità d’intenti con l’Occidente ed in primis con gli Stati Uniti. “È un dato di fatto – scrive un ex ambasciatore arabo accreditato negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – che gli Stati Uniti abbiano stipulato delle alleanze coi Fratelli Musulmani per buttar fuori i Sovietici dall’Afghanistan nel 1979; e che, da allora, non abbiano cessato di far la corte alla corrente islamista, favorendone la propagazione nei paesi d’obbedienza islamica”.[4]

Ecco che si esplica in tutta la sua chiarezza il progetto di cantonizzazione etnico-confessionale del Vicino e Medio Oriente, da parte degli Stati Uniti, ovvero l’intento di frammentare quegli Stati-nazione della regione troppo forti ed in grado di coagulare un sentimento patriottico arabo ed islamico. La strategia del divide et impera ha trovato la sua piena attuazione nell’Iraq, oggi ridotto ad uno spezzatino e completamente innocuo dal punto di vista della potenza occidentale. Adesso, analoga cura andrebbe somministrata alla Siria, che si presta ottimamente ad essere divisa in vari pezzi, previa eliminazione della dirigenza ba‘thista; così come l’Iran, che andrebbe spezzettato in una serie di staterelli, nei piani della politica mondialista perseguita dagli Stati Uniti; così come stava avvenendo in Egitto, dove Morsi è riuscito a portare il Paese sull’orlo del separatismo utilizzando maniere consolidate per far esplodere il già infuocato crogiolo sociale.[5] I Fratelli musulmani hanno infatti definito, nei loro proclami, “infedeli” i sostenitori del presidente siriano Bashar al-Assad, gli sciiti e i cristiani, circa il 15% della popolazione egiziana, aprendo di fatto la via alla guerra civile. Sono moltissimi i casi di cristiani copti uccisi, violentati e le cui chiese furono bruciate sotto il silenzio della “comunità internazionale”.

In Egitto il presidente Morsi non è riuscito, forse consapevolmente, ad affermarsi come il presidente di tutti gli egiziani, ma più modestamente come un ingranaggio della “grande macchina” della Fratellanza Internazionale, operando nell’interesse di questa. Ha lanciato un’ondata di privatizzazioni che riguardavano anche il Canale di Suez, simbolo dell’indipendenza nazionale, attraverso un fittizio movimento per l’indipendenza del Canale completamente finanziato dal Qatar, il quale rappresentava il miglior candidato all’acquisto dello stesso canale.[6]
Durante la sua presidenza il turismo in Egitto si è praticamente rarefatto, l’economia è regredita, e la valuta nazionale è precipitata del 20%.

Nel novembre del 2012 il presidente Morsi ha abrogato la separazione dei poteri in Egitto, vietando ai tribunali di contestare le sue decisioni. Poi ha sciolto la Corte Suprema e ha revocato il procuratore generale. Ha abrogato la Costituzione e ne ha fatto redigere una nuova da una commissione da lui nominata, prima di fare adottare questa legge fondamentale in un referendum boicottato dal 66% degli elettori.
Per l’esercito Morsi si è posto al servizio dello straniero: del Qatar che lo ha finanziato con 8 miliardi di dollari in un anno; della Turchia contro il vecchio alleato siriano incitando alla “jihad” contro gli “infedeli di Damasco”, seppure la Siria sia vitale per la sicurezza nazionale egiziana. Durante l’ultima visita in Italia il Ministro degli Esteri dell’attuale Governo di transizione egiziano ha affermato in merito all’importanza della questione siriana per l’Egitto: “Abbiamo entrambi una parte storica nel preservare l’identità araba, nell’affermare lo Stato-nazione contro le fratture etniche e settarie. La divisione della Siria destabilizzerà l’intera regione. Perciò rappresenta una questione di sicurezza nazionale anche per l’Egitto”.

Ecco perché la potente casta militare ha risposto a quella che ha ritenuto un’ingerenza, mettendo pesantemente mano sugli affari civili dell’unico Paese al mondo ad essere stato governato per oltre 3000 anni esclusivamente dai militari, con l’eccezione dell’anno di Morsi. [7]

Il Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale ‘Abd al-Fattah al-Sisi, ritiene che la funzione delle forze armate sia quella di difendere i confini del Paese, non di dichiarare la “guerra santa” ad altri Stati musulmani. Perciò l’esercito ha permesso lo sviluppo del movimento Tamarrud (“Ribellione”), che in pochi giorni ha raccolto 15 milioni di firme contro il presidente Morsi, preparandone la sua messa in stato d’accusa.
Quando le manifestazioni anti-Morsi avevano raggiunto un livello critico, assai superiore ai voti ottenuti dallo stesso Morsi (richiamando 17 milioni di manifestanti), l’esercito è intervenuto per mettere sotto accusa il presidente. Il generale al-Sisi ha incontrato il segretario alla Difesa degli Stati Uniti per assicurarsi che nulla sarebbe stato fatto per mantenerlo al potere, dato che gli Usa hanno ricoperto un ruolo primario nella destituzione di Mubarak e l’affermazione di Morsi.

Nel frattempo, prima del colpo di Stato militare egiziano, i sauditi stipularono un accordo segreto con l’allora
ministro della Difesa e capo dell’esercito, secondo cui i sauditi, assieme ad altri petro-Stati del Golfo, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, avrebbero garantito il sostegno finanziario anche e soprattutto qualora l’amministrazione Obama avesse tagliato il miliardo e mezzo di dollari in aiuti annuali ai militari egiziani, per rappresaglia contro la cacciata del loro uomo, Morsi. Una chiara risposta alla decisione degli Usa di rovesciare Mubarak, fidato alleato dell’Arabia saudita.
Ma la Casa Bianca ha diplomaticamente dichiarato di “non avere l’obbligo legale di determinare se i militari egiziani abbiano compiuto un colpo di stato nel deporre il presidente Morsi”, formula che permette agli Usa di continuare a fornire al Cairo il proprio aiuto finanziario in ambito militare. Continuando così ad investire sulla casta militare, la principale e più stabile leva d’influenza statunitense e occidentale in Egitto e non solo. Anche se successivamente hanno bloccato una tranche di 500 milioni di dollari in attesa di “progressi credibili nella formazione di un governo di civili, inclusivo e democraticamente eletto attraverso libere e corrette elezioni”. Ma solo il tempo ci dirà se tale decisione è scaturita dall’applicazione della legge che vieta il sostegno ai regimi andati al potere violando la Costituzione, o come conseguenza dell’indebolimento economico di Washington [8].

È in questo contesto che si inserisce la Russia: la nave ammiraglia della flotta di Mosca nel Mediterraneo, l’incrociatore Varjag, l’11 novembre 2013 è attraccata ad Alessandria. La prima nave da guerra russa a sostare in Egitto dalla caduta dell’Unione Sovietica. Il 13 e 14 novembre una delegazione russa, guidata dai ministri degli Esteri e della Difesa, ha visitato il Cairo per negoziare la vendita, senza alcuna limitazione, di armi moderne: l’Egitto prevede di acquistarne per 4 miliardi di dollari, compreso materiale che Washington ha rifiutato di fornirgli. La Russia si mette di traverso nelle relazioni tra Egitto e Stati Uniti, dunque, e Vladimir Putin non perde tempo benedicendo la candidatura alla presidenza dell’Egitto del maresciallo ‘Abd el-Fattah al-Sisi: “So che ha preso la decisione di presentare la sua candidatura alle presidenziali […] e le auguro a nome del popolo russo di avere successo”, ha detto Putin ad al-Sisi giunto a Mosca per discutere di accordi di cooperazione militare [9].
Lo Stato che più di altri ha subito la rapida caduta dei Fratelli musulmani in Egitto è il Qatar, che fin dagli esordi aveva sostenuto Morsi economicamente e attraverso la sua emittente televisiva, al-Jazeera, che ora invoca l’assassinio dei capi militari egiziani. La caduta di Morsi, per il Qatar, rappresenta la fine del progetto di acquisizione del controllo del Canale di Suez.

Dopo la decisione governativa di mettere fuori legge il movimento dei Fratelli Musulmani e arrestare circa duemila dei suoi aderenti, il livello di animosità tra gli islamisti e il governo provvisorio guidato dal generale al-Sisi è tornato pericolosamente a salire, e gli scontri tra le forze dell’ordine ed i manifestanti pro-Morsi hanno provocato vittime dal Cairo ad Alessandria.
Nel frattempo il generale è stato promosso al grado di maresciallo, il più importante del Paese, ed ha incassato “con soddisfazione” l’invito del Supremo consiglio militare (Scaf) a candidarsi a ricoprire il ruolo di Capo dello Stato. “Il consenso popolare al maresciallo al-Sisi è un appello che esige di essere accolto, nel quadro della volontà liberamente espressa”, ovvero le prossime elezioni, hanno scritto i militari.

A breve si attende il via all’iter per la presentazione delle candidature, con le dimissioni dello stesso al-Sisi da capo dell’Esercito e del Governo, con la data delle consultazioni elettorali. Ma intanto, il maresciallo si gode un’altra vittoria: l’approvazione della nuova Costituzione dove i “Sì” hanno prevalso per oltre il 90% delle preferenze e l’affluenza alle urne si è attestata al 55%.
Ma la sfida è appena iniziata e solo il tempo ci dirà se il Consiglio militare sarà in grado di mantenere l’unità nazionale o se, trascinato dal rumore delle armi, imporrà un’altra dittatura.

NOTE
[1] Il gruppo di militanti islamisti Ansar Bayt al-Maqdis ha rivendicato la responsabilità dell’esplosione del bus turistico nel Sud del Sinai, dichiarando che si è trattato di un attacco suicida e minacciando altri assalti contro bersagli rilevanti per l’economia. “Ansar Bayt al-Maqdis ha sacrificato con successo uno dei suoi eroi facendo esplodere il bus diretto verso i sionisti: ciò fa parte della nostra guerra economica contro il regime dei traditori”, ha dichiarato il gruppo. “Con la volontà di Dio, controlleremo questa pericolosa gang di infiltrati e mineremo i loro interessi politici ovunque in modo da impedirgli di fare del male ai musulmani”, si legge ancora nella dichiarazione rilasciata dal gruppo.
[2] Claudio Mutti, “L’islamismo contro l’Islam?”, “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”, 20 novembre 2012.
[3] Enrico Galoppini, Chi manovra i “modernisti islamici”?, Cese-m.eu, 20 gennaio 2014.
[4] Claudio Mutti, L’islamismo contro l’Islam?, “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”, 20 novembre 2012.
[5] Enrico Galoppini, “Primavera araba o… “fine dei tempi”?, “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”, 23 luglio 2012.
[6] La privatizzazione dell’economia egiziana avrebbe raggiunto il suo culmine con la vendita del Canale di Suez, grande fonte di reddito, al Qatar. Vista la resistenza della società egiziana, Doha ha quindi finanziato un movimento separatista nella regione del canale, una sorta di riedizione di ciò che fecero gli Stati Uniti quando crearono il movimento di indipendenza panamense in Colombia.
[7] Governando in Egitto,i Fratelli hanno per lo più dimostrato che il loro slogan “L’Islam è la soluzione!” mascherava male la loro impreparazione e la loro incompetenza. Hanno una lunga e oscura storia di golpisti in molti stati arabi. Nel 2011, hanno organizzato l’opposizione a Mu‘ammar el-Gheddafi e hanno approfittato del suo rovesciamento da parte della NATO. Continuano la lotta armata per conquistare il potere in Siria. Per quanto riguarda la Fratellanza in Egitto, il presidente Morsi ha riabilitato i killer del suo predecessore Anwar al-Sadat e li ha rilasciati. Ha inoltre nominato governatore di Luxor il numero due del commando che proprio lì vi aveva massacrato 62 persone, per lo più turisti, nel 1997. Inoltre, durante il semplice appello a dimostrare lanciato dai Fratelli affinché si riportasse in carica il “loro” presidente, essi si sono vendicati bruciando 82 chiese copte. Thierry Meyssan, Le public occidental effrayé par le général Al-Sisi , Voltairenet.org, 26 agosto 2013
[8] Thierry Meyssan, Vers un monde sans les États-Unis, Voltairenet-org, 15 ottobre 2013.
[9] Thierry Meyssan, L’Égypte va t-elle s’allier avec la Russie?, Réseau Voltaire, 12 novembre 2013.

KERRY, DA CHE PULPITO VIEN LA PREDICA?

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Una doverosa premessa: non ci si può certo aspettare che il segretario di Stato americano, colui che dirige su indicazioni del Presidente la politica estera di quella che è ancora – piaccia o no – la superpotenza al mondo, cali mestamente le braghe di fronte ad una situazione critica come quella delineatasi negli ultimi giorni in Ucraina. Ci piacerebbero un po’ di buon senso e un po’ di coerenza verso la storia, almeno quella recente, ma si tratta pur sempre del Paese guerrafondaio e uso a risolvere le controversie con l’uso della forza, piuttosto che con la diplomazia. Checché ne dicano i suoi maggiori esponenti.

Una volta detto questo, diventa legittimo strabuzzare gli occhi dallo stupore quando sentiamo John Kerry ammonire severamente le altrui ingerenze negli affari interni di Paesi sovrani e, non pago, due giorni dopo rincarare la dose, accusando Mosca di tenere “comportamenti tipici dell’Ottocento” nel momento in cui disloca i suoi soldati in Crimea. Queste dichiarazioni lascerebbero intuire da parte sua un’ignoranza storica clamorosa (cosa che di certo non è) oppure l’ennesimo, consueto tentativo di dipingere la realtà a proprio piacimento, condannando i comportamenti degli altri qualora non graditi e omettendo i propri per quello che sono (cosa che è).

Pensiamo solo ad alcuni casi, dal ‘45 ad oggi, in cui gli Stati Uniti si macchiarono di forti ingerenze e di attacchi militari nei confronti di stati sovrani; per ricordare – a chi ha la memoria corta – come Kerry, Obama (con il suo “lato sbagliato della storia” su cui si sarebbe schierato Putin) e buona parte del mondo occidentale abbiano perso un’ altra, ottima occasione per essere coerenti con sé stessi, oltre che con la storia. Pensiamo alla Palestina, nel ‘48, quando Truman (quello delle due bombe atomiche sui civili giapponesi a guerra pressoché finita) riconobbe per primo il nascente stato ebraico – profondamente iniquo nei confronti degli arabi per le modalità di partizione – e solo per la già allora fortissima influenza della potente comunità ebraica americana. L’Iran, nel ’53, quando il governo di Mossadeq fu rovesciato da un colpo di Stato orchestrato da CIA e servizi segreti britannici, fomentando violente manifestazioni di piazza (vi ricorda qualcosa?) e riportando al potere lo scià, marionetta dell’Occidente. Poi le azioni compiute in Sud America: dai più noti appoggi ai regimi di Pinochet in Cile e a quello di Batista a Cuba, a quelli meno noti come in Guatemala nel ’54, quando la CIA e miliziani locali rovesciarono il governo di Arbenz e le sue riforme agrarie invise alle multinazionali della frutta yankee; e ancora, la repressione della rivoluzione antidittatoriale nella Repubblica Dominicana, il sostegno ai contras in Nicaragua per contrastare il regime Sandinista, passando per l’appoggio ai militari di El Salvador, sempre in nome dell’opportunamente agitato spauracchio comunista. Il Vietnam e le precedenti intromissioni in Laos e Cambogia. Il Medio Oriente con il continuo, cieco supporto ad Israele e l’intromissione in Libano. La presenza – per quanto meno diffusa – in Africa, e poi l’Europa. Con il sostegno della CIA al regime dei Colonnelli in Grecia e la longa manus della Nato nell’intricata questione di Cipro, senza contare l’opprimente presenza in tutte le posizioni di potere nella gran parte degli altri stati al di qua della cortina di ferro, Italia in primis, con le relative ombre su alcuni dei più terribili fatti di cronaca e le infiltrazioni della CIA nelle più spietate organizzazioni terroristiche.

Ma se alcuni di questi casi avevano un senso e volessimo pure, da un lato, dar loro un’attenuante in nome della Guerra Fredda e della rigida logica bipolare che essa comportava – tenendo anche conto di come l’Unione Sovietica non costituisse certo un gregge di agnelli – come spiegare tutte le successive operazioni militari compiute in giro per il mondo dal 1989 in poi? La Prima Guerra del Golfo, gli attacchi alla Somalia, il bombardamento della Serbia, l’invasione dell’Afghanistan, la nuova invasione dell’Iraq, poi la distruzione della Libia e infine quella, per nostra fortuna non completata, della Siria. Come giustificare la crescente presenza militare americana in tutto il mondo e l’aumento dell’ingerenza nella vita politica di altri paesi, a dispetto del crollo del muro di Berlino? Come spiegare le palesi violazioni dei diritti umani, del diritto internazionale, della pacifica convivenza e del buon senso? Come valutare l’esistenza della Nato, oggi, a venticinque anni dal dissolvimento del Patto di Varsavia? In queste quattro, ampie domande che è legittimo porsi, saltano alla mente armi di distruzione di massa mai esistite, bombardamenti di migliaia di incolpevoli civili, enormi interessi energetici coltivati in maniera spregiudicata, basi militari aumentate a dismisura in tutto il mondo e con un occhio di riguardo al perimetro russo, rivoluzioni e sommosse fomentate dall’esterno per destabilizzare paesi critici dal punto di vista geopolitico, la creazione del lager di Guantanamo dove Dio solo sa cosa succeda, sodalizi con organizzazioni criminali e terroristiche e tanto altro ancora. Senza menzionare le politiche economiche imposte a taluni stati dai bracci atlantisti (FMI in testa, già presente, ora, in Ucraina), talvolta peggiori delle guerre stesse.

Tralasciando i noti aspetti dell’intera vicenda di questi giorni (il governo democraticamente eletto rovesciato da moti di piazza, il riconoscimento subito esteso dall’Occidente al nuovo esecutivo, il rischio per la popolazione russa dell’est del Paese, l’importanza storico-strategica della Crimea, ecc …), in base a cosa la Russia dovrebbe quindi sentirsi in colpa nel difendere i suoi confini e la sua storica sfera d’influenza, minacciati di continuo dalle sempreverdi idee confezionate negli anni da Brzezinski e Kissinger per contenere l’Orso russo? Chi è che attua davvero logiche ottocentesche in spregio alle più comuni norme di diritto internazionale, e che non più tardi dell’estate scorsa era pronto ad attaccare la Siria con un’invenzione, poi smascherata?

Mr Kerry, da che pulpito?

MITUL LUI CEAUŞESCU VA SALVA, POATE, ROMÂNIA

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Oricât aş încerca să găsesc un element de coagulare a ţării noastre în ultimii 24 de ani, nu-mi vine altul în minte decât Ceauşescu. Şi cum orice istorie începe cu un mit fondator (în ciuda a ceea ce crede istoricul neoraţionalist şi deconstructivist Lucian Boia), se prea poate ca viitorul nu foarte îndepărtat să apeleze la tot ce mai are România viu din recenta sa istorie. Iar acest ceva este Nicolae Ceauşescu.

Nu neapărat meritele omului, asasinat în condiţiile cunoscute, ci actualul context în care ne aflăm va face ca fostul preşedinte comunist al ţării să reprezinte un reper pentru noi de aici înainte. Prăbuşirea României actuale este, în sine, iremediabilă. Dacă lucrurile vor continua pe aceeaşi linie ca în ultimele două decenii şi jumătate, România nu va mai exista ca stat. Din lipsă de perspectivă. Sau va fi un soi de hinterland la îndemâna oricui – deocamdată la cheremul Occidentului, dar mai târziu, cine ştie, poate al Rusiei, Chinei sau altei puteri suverane. De ce am ajuns aici? Şi care sunt semnele acestui deces geopolitic?

Niciun domeniu al vieţii sociale actuale nu mai are semne vitale. Nu le putem enumera pe toate, dar nici nu e nevoie. Ceea ce e valabil la unul, e valabil la toate. Iar regula e simplă: distrugerea eticii muncii, distrugerea tradiţiei locale, distrugerea relaţiilor dintre oameni, distrugerea idealismului naţional sau societal. Toate acestea se repetă la indigo în toate direcţiile, de la apărare la sănătate, de la învăţământ la agricultură.

În vremea comunismului, mai respira încă la profesioniştii noştri aerul conservator şi firesc al vechilor bresle, căci
specialiştii mai bătrâni de prin fabrici erau „meşteri”, iar inginerii erau consideraţi un fel de boieri-aristocraţi care nu prea munceau manual. Ce vremuri normale pentru o lume aşezată! Astăzi, nimeni nu iese din condiţia unui „manager”. Definind viaţa ca un teren de manageriat, actuala societate a rupt tradiţia vie a poporului român, pentru care viaţa e de la Dumnezeu şi are un înţeles. Nu doar un interes, ci un înţeles. Astăzi, nu mai înţelegem ce e cu noi. Am devenit manageri!

Pământul ţării este supus parcelării interioare, cea mai gravă dintre toate. Fiecare dintre noi contribuie la risipirea pământului naţional, în idealitatea lui, prin calcularea efectivă a rentei economice pe care ne-o poate aduce. Nu regionalizarea exterioară este pericolul cel mare, ci parcelarea interioară, urmare a privirii exclusiv economice asupra pământului. Fiecare ţăran român, fiecare român mediu e îndemnat acum să devină investitor! Şi unde? În pământul în care şi-a îngropat părinţii sau pe terenurile pe care strămoşii lui, neinvestind şi nefiind manageri, şi-au păscut oile. A rupe unitatea pământului ţării în numele acestei infinite dorinţe de câştig înseamnă deja a nu mai avea pământ. A nu mai avea ţară. Între timp, ca o ironie a propriilor noastre neputinţe şi ezitări, pământul ţării trece în proprietatea altora. Când un popor tradiţionalist ca al nostru e îndemnat să „investească în agricultură”, e semn rău. E semn că toate celelalte mijloace i-au fost subtilizate, iar acum i se pregăteşte şi furtul pământului. După 1989, am fost bruscaţi de ideologia pieţei libere şi de leseferismul liberal. Între timp, piaţa ne-a fost ocupată – invadată – de alţii, iar libertatea de a face s-a transformat în jugul cel mai oribil la căruţa transnaţionalelor.
Medicii noştri sunt obligaţi să devină şi ei mici manageri, să-şi mintă pacienţii (deveniţi între timp clienţi), pentru a vinde reţetele, pentru ca „industria” medicală să meargă înainte. Aparatele medicale trebuie şi ele să se amortizeze, aşa că analizele „gratuite” devin normă obligatorie interiorizată. Poporul de „asistaţi” despre care vorbesc subţire analiştii liberaloizi este literalmente ucis cu tonele de medicamente care se vând adesea fără prescripţie medicală, ba chiar împotriva oricărei logici medicale.

Învăţământul a fost grav avariat de filosofia alternativităţii, dar cel mai tare a contribuit la năruirea lui atotputernicia pieţei: să facem universitatea după chipul pieţei muncii, altfel prima se va desfiinţa, spre uşurarea definitivă, probabil, a celei de-a doua. Care piaţă a muncii se restrânge din ce în ce mai mult. Europa nu mai vrea muncitori din România, românii şi-au dat măsura şi în materie de salahorie, şi în materie de asistare a bătrânilor la domiciliu, şi în materie de specialişti IT. Destul! Gata cu filosofia integrării europene, suntem pe cont propriu (dar între timp nu mai avem niciun cont, şi nicio bancă!), trebuie să ne descurcăm. Se spune că românii care au avut contact cu munca în Occident s-ar fi trezit la realitate şi ar fi elemente de reconsolidare a ţării de origine. E doar o păcăleală, ca atâtea altele. Pe când ei îngroşau rândurile salahorilor în Occident, în ţară toată infrastructura socială era prăbuşită, iar astăzi, chiar dacă ar vrea să aplice nu ştiu ce metode ale muncii din Vest, nu mai au unde. Nicio ramură industrială nu mai aduce profit României, ci marilor firme multinaţionale. Nicio profesie nu mai este profesie, ci doar un mod de a face bani pe seama altora. Ce etică vor aduce muncitorii români de afară în ţară? Şi în ce mediu s-o transplanteze? Minciuna este istorică: ne amintim că, pe vremuri, muncitorii români nu prea lucrau în Vest. Lucrau mai mult în Est sau în ţările arabe. Dar asta nu-i făcea mai puţin profesionişti, dimpotrivă. Acolo lucrau în numele (şi) al ţării, erau ca un fel de echipă naţională de fotbal în variantă profesională, erau mândri că erau români şi, din acele vremuri, străinii care au venit în contact cu noi ne-au păstrat o bună amintire. Astăzi, românii care muncesc „afară” se ascund de ruşine, studenţii care pleacă la studii în străinătate au înainte de orice de luptat cu imaginea de barbari pe care ne-am creat-o sau ne-a fost creată în ultima vreme. Şi dacă reuşesc, o fac în nume propriu, individual. E greu să construieşti o naţiune cu un popor de „indivizi”, fie ei şi de succes! Ba chiar aş spune că e cu atât mai greu cu cât ni se sugerează că aceştia au reuşit nu ca români, ci ca indivizi. Şi că au reuşit datorită condiţiilor (citeşte: ţării gazdă) de acolo. Trebuie să le mulţumim ţărilor gazdă că ne pot pune la dispoziţie un strung, o catedră, un birou sau un scaun, pentru a munci. Aici, în România, nu mai este posibil…
Geopolitica noastră şi filosofia statului nostru se reduc la copierea reţetelor dictate din centrele militare străine. Am copiat o doctrină de apărare americană şi am denumit-o doctrină de apărare naţională. Ne definim duşmanii după cum vrea Washingtonul (nimeni nu ştie ce spunea Carl Schmitt despre suveranitatea unui stat şi definirea duşmanilor? Ba da, dar nimeni nu vorbeşte…).

Credem că dacă vom sta cuminţi în banca (barca?) integrării euroatlantice, vom fi răsplătiţi la sfârşit cu o bucată de pământ la est de Nistru. Foarte bine, numai că, între timp, oamenii care încă mai stau acolo (bătrânii care nu au murit, căci tinerii nu vor să rîmână), nu vor mai fi un subiect politic, ci unul cvasi-medical: oameni bătrâni fără speranţe, oameni fără voinţă, oameni fără proprietate, oameni fără orizont tradiţional.
Avem programe de asistenţă socială, cu bani străini, pentru străini, adică pentru filosofia lor de viaţă. Care poartă un singur nume: drepturile omului. Tot ce depăşeşte sau încearcă să chestioneze această falsă filosofie trezeşte suspiciune. Noua erezie se numeşte tradiţionalism sau naţionalism, suveranism sau etatism, iar noua ideologie salvatoare este amestecul impur de corectitudine politică şi capitalism global-abstract, antinaţional când nu este anaţional. Managerii români, cei care încă mai cred în ideea de ţară, se adună incognito şi fac planuri. Uitaţi-vă în CV-urile lor: toţi lucrează pentru firme străine. Şi vor să facă o politică de opoziţie, vor să trezească România! Tristă condiţie! Când România era a românilor, profesioniştii români nu erau naţionalişti, nu încercau să se adune pe la colţuri ca să reziste capitalului global. Îşi făceau pur şi simplu meseria şi asta era suficient pentru a se simţi oameni normali, era suficient pentru ca ţara să meargă înainte. Nu excelent, dar să meargă. Şi să aibă un orizont. Ba mai şi făceau opoziţie la regimul politic, chiar dacă nu făţiş. Românii făceau bancuri pe seama lui Ceauşescu. Astăzi, nimeni nu mai face bancuri pe seama clasei politice, nici pe seama situaţiei generale a ţării. E semn că nimeni nu mai crede în revenire. Dimpotrivă, oamenii se adună, cum pot, ca la răscoală, pe facebook, să alunge utilajele de la Pungeşti, iar jandarmeria se interpune între „desculţi” şi investitori. Ce bancuri mai încap după aceste imagini ale disperării? Cum ai putea glumi despre aşa ceva? Când oamenii mor de foame sau au fugit de pe un teritoriu pustiit de istorie, dar se adună din nou la vederea celor care mai au ceva de supt din acest teritoriu al nimănui, e semn rău. E semn că peste tot poate fi la fel. Lipsa de orizont e, cu groază aş spune, mai mare decât în 1989. Să-mi spună cineva ce urmează azi, ce se întrevede la orizont de aici înainte? Are cineva curajul să fie optimist? Dimpotrivă, în 1989 ştiam că Ceauşescu va muri şi că vor urma vremuri mai bune, pentru că aveam încredere în noi ca popor. Singura problemă era când urma să fie schimbarea. Eram exasperaţi de aşteptare, dar nu credeam că poate fi mai rău. Astăzi, lucrurile stau invers. Suntem prea plini de prezentul lent decadent. Sfârşitul lumii e când nu se mai schimbă nimic, în 1989 ştiam că trebuie să se schimbe ceva.

Românii nu au mai apucat, practic, epoca post-Ceauşescu, pentru că Ceauşescu a fost omorât. Noi trăim acum epoca ante-Ceauşescu… Şi de aceea trebuie s-o luăm de la capăt. Nu mai avem industrie, deci trebuie s-o refacem. Nu avem bănci, deci trebuie să le întemeiem. Nu avem nici agricultură, abia acum ne gândim să irigăm pământul. Nu (mai) avem soiuri locale, deci trebuie să le recuperăm. Nici utilaje nu avem, căci cele de import sunt atât de scumpe, încât muncim pământul numai ca să achităm combinele şi tractoarele străine care duduie pe câmp. Învăţământul trebuie reluat de la şcolile profesionale, pentru că avem avocaţi la fel de mulţi ca în perioada interbelică şi, la fel ca atunci, dreptatea umblă cu capul spart! Nu mai este nici democraţie, sau ceea ce se cheamă democraţie este o formă hilară de cerşit voturile, bazată pe veşnicele certuri între clanuri (partide).
Ne tratăm călugării ca pe nişte bătrâni retrograzi şi inutili, care nu înţeleg ce e lumea din jurul lor. Dar la fel ne tratăm şi părinţii, la fel ne tratăm pe noi înşine. Nu e vizibil că în România nu se mai poate înţelege nimeni cu nimeni, pentru că nimeni nu mai crede în nimic? S-a rupt veriga ce ţinea împreună celula socială, încrederea în destinul comun (comunitate de destin? Cine mai înţelege o sintagmă de secol trecut, ca la Rădulescu-Motru?). Ne tratăm trecutul cu detaşare şi cu instrumente politic corecte. De aceea, trebuie să-l periem, să-l expurgăm de durităţi, să-l afânăm, să-l trecem prin hidroliza ideologică a democraţiei şi a drepturilor omului.
Singurii care mai supravieţuiesc, morţi definitiv fiind, sunt analiştii. Analiştii sunt specia cea mai teribilă pe care a scos-o de la naftalină istoria recentă. Ori de câte ori apar revoluţiile, apar şi demagogii apărători ai lor. Sofişti, lefegii, onctuoşi, totdeauna puşi pe negociere, dornici să împace pe toată lumea, nespunând nimic în afară de ceea ce simt că li se cere. Analiştii sunt prinţii PR-ului, căci ei se adresează memoriei colective a naţiunii, cea mai importantă instanţă politic-istorică. O memorie colectivă care trebuie de fiecare dată remodelată. După fiecare revoluţie, apar astfel de modelatori de serviciu. Ei îşi încheie misiunea abia atunci când naţiunea îşi revine din somnul raţiunii politice. Când adevărul se statorniceşte şi ţara este condusă corect, analiştii pot pleca în lumea umbrelor. De acolo de unde vin. Până atunci, au de lucru.

Până să apară însă un conducător care să instaureze pacea socială, aceea adevărată, spirituală, despre care Julius Evola spunea că este prezenţa convingătoare a divinităţii în lume, ne zbatem să rezistăm „adevărurilor” parţiale şi bine răsplătite ale analiştilor zilei.
România nu mai există. Deocamdată, e o denumire vagă. O posibilă reunire de provincii slabe sau o posibilă ţară balcanizată, cu focare de conflicte purulente, de fapt un butoi de pulbere care deja a explodat şi a cărui energie istorică este răspândită în toate cele patru zări.

ALEKSANDR DUGHIN: TEORIA LUMII MULTIPOLARE (5)

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CAPITOLUL 2. BAZELE TEORETICE ALE LUMII MULTIPOLARE

Continuare din numărul precedent.

Preconcept: civilizaţia şi „spaţiul mare”

În procesul edificării lumii multipolare, la un moment va apărea cu toată acuitatea problema trecerii noţiunii de civilizaţie din categoria socioculturală în noţiune de drept. Aici este extrem de valoroasă concepţia „spaţiului mare” (Grossraum), elaborată de filozoful şi juristul german C. Schmitt1. Teoreticianul englez al Relaţiilor Internaţionale (RI) F. Petito2 a arătat în mod convingător importanţa ideilor lui C. Schmitt pentru domeniul RI. Schmitt se întreabă în ce mod are loc formarea normelor internaţionale, care capătă în timp statutul unor norme legale general recunoscute. El se interesează în mod special de constituirea fenomenului numit Jus Publicum Europeum, care a pus bazele sistemului european al RI în Modernitate. Schmitt se situează în mare pe poziţiile realismului, iată de ce pentru el chestiunea de prim ordin este însăşi procedura corelării suveranităţii statului naţional (deasupra căruia prin definiţie nu poate exista nicio instanţă superioară) şi elaborării regulilor în domeniul relaţiilor internaţionale, cărora, cu toate acestea, trebuie să i se subordoneze statele naţionale. De obicei, existenţa unei ordonări instituţionale a anarhiei internaţionale este recunoscută anume de liberali, motiv pentru care în anumite clasificări ei sunt numiţi „instituţionalişti”. În cazul lui C. Schmitt este vorba de un realist convins, care acordă, cu toate acestea, o atenţie deosebită structurării mediului relaţiilor internaţionale. De aici şi trăsătura paradoxală a abordării pe care o propune: „realism instituţional”3.

Potrivit lui Schmitt, haosul şi anarhia în relaţiile internaţionale în calitate de premise de bază ale realismului în RI sunt reglementate nu pur şi simplu prin apeluri la comunitatea de valori liberal-democratice, la concurenţa comercială şi la pacifism, ci prin echilibrul de forţe conştientizat într-un mod specific, corelat cu o situaţie geografică concretă. Acordând o atenţie deosebită geopoliticii, Schmitt insistă asupra stabilirii normelor de drept în funcţie de spaţiul geografic4. În consecinţă, întreaga sferă a RI este corelată cu harta fizică şi politică a lumii. Astfel, haosul în RI capătă trăsături spaţiale şi este structurat de către liniile de forţă ale echilibrului de putere între diverse ţări.

Întrucât sistemul de la Westfalia se dezice la modul formal de recunoaşterea unei realităţi legitime, ce ar depăşi suveranitatea naţională, crearea unui sistem de norme al RI bazate pe spaţiu nu poate obţine o expresie conceptualizată la nivel formal. Însă, cu toate acestea, uneori echilibrul de forţe devine atât de stabil şi pregnant, încât poate fi comparat în esenţa lui cu legea şi, respectiv, să fie fixat şi în acte cu caracter juridic. Anume o astfel de soartă a avut „doctrina Monroe”, dreptul maritim englez, „doctrina lui Wilson” sau condiţiile Păcii de la Versailles: puterile mondiale dominante identificau propriile interese naţionale (confirmate prin resurse de forţă) cu starea de lucruri stabilită la nivel normativ; şi asta chiar şi în acele cazuri în care era vorba de procese ce se desfăşurau nu doar în afara graniţelor acestora, ci la distanţe considerabile de ele.

Schmitt examinează în mod detaliat desfăşurarea acestei lucrări fine ce conduce, în ultima ei etapă, la apariţia unor structuri de drept supranaţionale, caracterizate de diverse grade de obligativitate, care contravine la nivel conceptual cu sistemul de la Westfalia, cel al suveranităţilor naţionale, universal recunoscut. Recurgând la această analiză, Schmitt utilizează termenul tehnic „preconcept”, văzut ca o anume idee politică ce dispune de o dimensiune supranaţională încă neconfirmată de normele juridice, dar care, în anumite condiţii şi ţinându-se cont de echilibrul de forţe existent la modul concret, ar putea căpăta un statut legal.

Schmitt corelează în continuare „preconceptul” (de exemplu, „doctrina Monroe” sau ”Reich-ul german”) cu frontierele spaţiale, asupra cărora ar putea fi aplicabil acest preconcept. Ca rezultat, ia naştere o nouă formă, „spaţiul mare” (Grossraum), ce constituie unul dintre componentele esenţiale ale teoriei lui Schmitt.

„Spaţiul mare” reprezintă expresia spaţială a preconceptului juridic în domeniul RI.

Dacă vom aplica această idee în cazul noţiunii noastre de „civilizaţie”, vom descoperi că aceasta se potriveşte în mod ideal cu Teoria Lumii Multipolare (TLM). Multipolaritatea, ca, de altfel, şi bipolaritatea sau unipolaritatea, nu exprimă o noţiune de drept şi nici nu poate să capete o astfel de semnificaţie într-un viitor apropiat sau chiar niciodată. Este doar descrierea echilibrului de forţe între actorii mondiali de frunte, existent de facto. Prin urmare, atât „civilizaţia”, cât şi „ordinea multipolară” au statutul de preconcepte juridice: acestea există, pot dispune de forţă şi pot fi confirmate prin resurse, pot fi declarate, pot fi funcţionale şi reale. În anumite condiţii, ele chiar pot înlocui modelul Westfalia, iar în acel moment va fi perfect legitim să se pună problema renunţării formale la suveranitatea naţională, această noţiune urmând să fie trecută asupra unei alte instanţe, civilizaţia însăşi sau polul lumii multipolare. În acest caz, preconceptul va deveni, pur şi simplu, concept şi noţiune juridică.

Însă evenimentele s-ar putea desfăşura şi conform altei logici, iar într-un astfel de caz, civilizaţia şi multipolaritatea vor rămâne la nivelul de preconcept pentru o perioadă indefinit de lungă (ca şi în cazul în care bipolaritatea n-a anulat suveranitatea naţională, dar a relativizat-o pentru toate ţările ce nu dispuneau de statutul de supraputere).

Atunci când vom încerca să conturăm graniţele civilizaţiilor, vom intra în contact cu „spaţiul mare”, o noţiune foarte potrivită în virtutea statutului ei de preconcept aplicat pentru stabilirea localizării spaţiale a civilizaţiei.

Lumea multipolară, bazată pe echilibrul de forţe a civilizaţiilor din care este alcătuită, va putea fi numită, urmându-l de Schmitt, „ordinea spaţiilor mari”5.

Relevanţa realismului pentru TLM

Civilizaţia în calitate de actor de bază în RI, precum şi TLM articulată în acest temei, pot fi corelate la un nivel nou cu teoriile existente, însă deja nu ca nişte derivate, ci ca o nouă paradigmă, aparte cu alte paradigme deja existente. O astfel de comparaţie ne va ajuta să conturăm mai amplu specificul TLM şi structura ei, dar şi să cercetăm cel mai important aspect: clarificarea faptului cum ar putea să se constituie relaţiile între civilizaţii, adică va prevala conflictul (aşa cum considera Huntington) sau dialogul (cum consideră M. Khatami sau F. Petitio6).

Realismul în cazul actorilor civilizaţiilor. Paradigma realistă, ce operează cu normele sistemului de la Westfalia şi evidenţiază în calitate de actori statele naţionale, nu e aplicabilă la modul direct pentru TLM. Diferenţa între actori predetermină o înţelegere cu totul diferită a mediului relaţiilor internaţionale. Dacă e să acceptăm paradigma realistă la propriu, vom vedea că în locul hărţii civilizaţiilor şi a „spaţiilor mari” va apărea harta politică a lumii, în care zonele civilizaţiilor sunt împărţite (uneori absolut arbitrar) într-un şir de state naţionale, unele state reprezentând intersecţia a două sau mai multe civilizaţii. Realiştii insistă asupra relaţiilor de ostilitate între state sau, în caz de forţă majoră, recunosc relaţiile ierarhice hegemoniste. Însă o astfel de abordare blochează orice încercare de integrare a „spaţiilor mari” pe temeiuri civilizaţionale. Prin urmare, realismul în starea lui pură este inacceptabil şi inaplicabil. Într-un asemenea caz, adepţii TLM se pomenesc în mod logic în raporturi polemice cu reprezentanţii realismului clasic sau ai neorealismului.

Dacă însă am privi în calitate de actori principali ai RI civilizaţiile, stabilite în cadrul „spaţiilor mari”, atunci vom căpăta un cu totul alt tablou. În acest caz am putea prezenta relaţiile intercivilizaţionale ca pe o analogie directă a structurii mediului internaţional în cadrul paradigmei realiste. Şi în acest caz e nevoie să fie postulat haosul şi anarhia, dar, de această dată, la un alt nivel, drept haos intercivilizaţional şi anarhie intercivilizaţională.

Urmând logica realiştilor, am putea spune că în cadrul TLM nu există vreun nivel supracivilizaţional, precum nu poate să existe vreo scară valorică ce ar putea să se prezinte în calitate de normă universal recunoscută între civilizaţii. Abordarea civilizaţională multipolară presupune unicitatea fiecărei civilizaţii, iar a găsi un numitor comun pentru acestea este imposibil. Anume în asta constă esenţa civilizaţiei în calitate de pluriversum7. Fiecare civilizaţie îşi formulează şi îşi prezintă în mod independent felul său de a înţelege noţiunea de om, societate, normă, adevăr, cunoaştere, existenţă, timp, spaţiu, Dumnezeu, lume, istorie, politică etc. Anume din acest motiv, dialogul între civilizaţii este posibil în aceeaşi măsură ca şi conflictul, însă este imposibilă trecerea de la câteva civilizaţii la una singură. La acest nivel, TLM poate să împrumute integral logica realiştilor tradiţionali, care neagă ontologia şi stabilitatea instituţiilor şi normelor integraţioniste, dar să o aplice asupra unui mediu totalmente diferit, nu unul internaţional (interstatal), ci intercivilizaţional.

Schimbarea subiectului ordinii mondiale presupune şi schimbarea conţinutului ei valoric. Dacă realiştii considerau că toate statele tind spre optimizarea propriilor interese şi raţionalizarea modurilor şi metodelor de atingere a acestora, atunci în cazul civilizaţiilor o astfel de schemă reducţionistă nu mai funcţionează. Civilizaţiile pot avea scopuri şi motivaţii totalmente diferite. Unii sunt predispuşi spre expansiune, alţii – spre maximalizarea puterii materiale, cei de-al treilea – spre dezvoltarea tehnică, cei de-al patrulea – spre contemplare, cei de-al cincilea – spre autoconservare prin izolare, cei de-al şaselea – spre un dialog activ cu lumea înconjurătoare şi spre un schimb de forme culturale. Aici abordarea „dizolvată” (thin) a RI nu se potriveşte câtuşi de puţin, întrucât civilizaţiile ca subiecţi sunt într-atât de polivalente şi unice, originale şi diferite, încât o abordare „densă” (thick) devine nu pur şi simplu dezirabilă, ci una necesară şi obligatorie. Modelarea profilului unei civilizaţii reprezintă de fiecare dată o sarcină unică în felul său, iar scoaterea în evidenţă a unor trăsături comune poate fi obţinută doar a posteriori, în niciun caz a priori. Aici este vorba despre o a doua limitare a realismului. Dacă realiştii înţeleg principiile „mizei pe forţele proprii” (self-help) şi ale intereselor naţionale ca pe o aliniere comună de parametri, caracteristici practic oricărui stat naţional, atunci TLM insistă asupra faptului că civilizaţiile dispun de un nomenclator al motivaţiilor de bază mult mai larg şi mai consistent, dar şi mai variat. Tocmai de aceea, atât haosul, cât şi anarhia capătă în mediul intercivilizaţional o structură mult mai complexă: este vorba nu doar despre un câmp de luptă al unor actori aproximativ la fel, dar cu potenţiale de forţă diferite, ci despre un sistem de interese şi scopuri similare, un labirint complex având mai multe straturi, în cadrul căruia funcţionează nişte legităţi non-lineare, attractori străini şi fenomene ale turbulenţei. Elaborarea hărţii anarhiei intercivilizaţionale reprezintă ceva mult mai complex decât analiza anarhiei în cadrul realismului clasic şi chiar al neorealismului.

Dar ţinând cont de aceste două amendamente fundamentale, mai multe mutări logice ale realismului pot fi incluse cu succes în procesul desfăşurării TLM.

În particular, un împrumut de primă importanţă din realismul clasic poate deveni critica existenţei însăşi a unor instituţii supracivilizaţionale. Neorealismul, cu predilecţia lui pentru construcţia unui sistem structural întemeiat pe echilibrul de forţe, poate fi aplicat cu succes şi în cazul ordinii mondiale multipolare, care, de asemenea, va fi organizată pornind de la parametrii săi de bază şi în funcţie de potenţialul de forţă al actorilor principali (doar că, în cazul dat, acestea vor fi civilizaţiile). Într-un anume sens, civilizaţiile ca poluri ale lumii multipolare vor fi nişte hegemonii regionale, cu toate consecinţele ce decurg de aici. În plus, astfel de hegemonii trebuie să fie mai mult decât două. Construcţiile neorealiste, care cercetau în mod prioritar anume modelele hegemoniste, pot fi extrem de utile pentru edificarea TLM. În plus, teoriile lui K. Waltz despre viabilitatea modelului bipolar8, care s-au pomenit la periferie, dezminţite de faptele anilor ’80-’90 ai sec. XX, pot fi incluse din nou în circuit în procesul construcţiei modelului multipolar, ce urmează a fi plasată în locul celui bipolar.

Relevanţa liberalismului pentru TLM

TLM poate împrumuta unele aspecte şi din paradigma liberală. Liberalismul insistă asupra faptului că regimurile politice similare (deşi liberalii vorbesc doar despre democraţiile liberale) înclină spre integrare, spre fortificarea relaţiilor pe mai multe planuri, sociocultural, economic şi cel de reţea, iar în perspectivă – şi a unor instituţii supranaţionale comune. Cultura democraţiei politice creează condiţii pentru depăşirea egoismului naţional. Dacă e să lăsăm la o parte apelul la „democraţie”, tipic pentru universalismul occidental, care este, în esenţă, unul „etnocentric”, vom obţine următoarea teză: societăţile cu culturi similare înclină spre integrare şi spre crearea unor structuri supranaţionale. Dacă vom aplica acest principiu faţă de zona civilizaţiei comune, ne vom pomeni pe unda TLM. Într-adevăr, procesele integraţioniste şi crearea unor structuri suprastatale în baza unei matriţe socioculturale comune decurg mult mai uşor decât în alte cazuri. În cadrul unei civilizaţii contează nu atât regimul politic al ţării (democraţia), cât cultura (iar deseori religia). De aceea, relaţiile între ţările cu o cultură (religie) comună se construiesc în baza unei logici cu totul diferite faţă de statele cu culturi diferite.

Comunitatea de cultură reprezintă pentru TLM condiţia necesară pentru o integrare cu succes în „spaţiul mare” comun, şi, respectiv, pentru crearea a însuşi polului lumii multipolare. Importanţa factorului cultural, care contează nu mai puţin decât cel al suveranităţii, îi apropie pe adepţii TLM mai mult de liberali decât de realiştii clasici care insistă în mod special asupra suveranităţii statelor naţionale, fără a ţine cont de factorul cultural. (C. Schmitt şi alţi „realişti instituţionali”, de exemplu, unii exponenţi ai şcolii engleze a RI, constituie o excepţie.) Însă o asemenea apropiere este valabilă doar cu condiţia înlocuirii semnelor „regimului politic” (democraţia) pe semnul apartenenţei la o cultură (religie) comună.

Paradigma liberală, în mod special neoliberalismul şi transnaţionalismul, acordă o atenţie aparte proceselor globalizării. Globalizarea are la nivel practic câteva etape. Iniţial are loc globalizarea regională, după care urmează cea universală, planetară. Pentru liberali, globalizarea regională constituie doar o stare intermediară şi o etapă prealabilă a globalizării planetare generale, care nu conţine nimic valoros, ci doar pregăteşte rezultatul râvnit – instaurarea „lumii globale” şi „sfârşitul istoriei”.

La rândul său, TLM sprijină globalizarea şi integrarea regională, deoarece în practică aceste procese au loc în limitele unei civilizaţii concrete. Dezbaterile în sânul ţărilor UE despre admiterea Turciei în cadrul acestei structuri supranaţionale arată în mod clar faptul că până şi în cazul europenilor, care ignoră orice aspect de ordin religios şi cultural al identităţii societăţii, sentimentul că turcii sunt străini trezeşte îngrijorări majore.

Însă în timp ce pentru liberali şi globalişti este vorba despre nişte dificultăţi de moment, adepţii TLM, dimpotrivă, conceptualizează anume integrarea regională, pe care o tratează ca pe un proces independent şi încheiat, valoros în sine; mai mult, după încheierea acestuia nu se mai presupun niciun fel de alte etape integraţioniste. Potrivit spiritului multipolarităţii, integrarea regională este văzută nu ca o treaptă sau fază a globalizării planetare, ci ca un proces istorico-politic, strategic şi social autonom, care constituie propriul său scop. Integrarea trebuie să se încheie pe măsura atingerii graniţelor fireşti ale civilizaţiei. După care va sosi faza precizării proporţiilor şi a sistemului de influenţă în zonele „de frontieră” .

Globalizarea regională îi apropie pe adepţii LTM de liberali în RI, însă atitudinea faţă de globalizarea planetară, dimpotrivă, îi îndepărtează.

Însă dacă e să acceptăm aceste două amendamente fundamentale (unitatea culturală în locul regimului politic şi globalizarea regională în locul celei planetare), atunci adepţii TLM pot să împrumute din plin argumentarea de la reprezentanţii teoriei liberale în RI, mai ales în acele cazuri în care trebuie respinse tezele realiştilor, care se ţin cu stricteţe de abordarea stato-centristă.

În plus, liberalii au dezvoltat un şir de teme care sunt, de asemenea, relevante pentru TLM.

În primul rând, este vorba despre ideea de pace sau de zonă a păcii, care constituie centrul atenţiei prioritare a liberalismului în RI9. Dacă vom arunca o privire asupra realităţilor istorice, vom observa că noţiunea de pace era în permanenţă legată de o precizare obligatorie: care anume lume? Cunoaştem Pax Romana, Pax Turcica, Pax Britannica, Pax Russica şi, în sfârşit, actuala Pax Americana. O asemenea utilizare a cuvântului „pace”, cu completarea ce clarifică a cui anume este pacea, cine e responsabil de ea şi de menţinerea ordinii, este destul de elocventă. Dacă vom corela această completare cu civilizaţiile, vom obţine teoria multipolară a păcii (Pax, peace), ce constă din câteva zone, unde va domina pacea, fiind întemeiată de fiecare dată pe un principiu civilizaţional concret. Astfel, obţinem următorul tablou:

Pax Atlantica (compusă din Pax Americana şi Pax Europea);

Pax Eurasiatica;
Pax Islamica;
Pax Cinica;
Pax Hindica;
Pax Nipponica;
Pax Latina.
Şi mai îndepărtatele:
Pax Buddhistica;
Pax Africana.
Aceste zone ale păcii civilizaţionale şi a securităţii comune pot fi luate drept concepte de bază ale pacifismului multipolar. Sarcina civilizaţiilor ca actori ai relaţiilor internaţionale este să le transforme în nişte zone ale unei păci stabile, deoarece, în caz contrar, ele nu vor putea să se prezinte de o manieră consolidată pe plan planetar. În plus, pacea multipolară (Pax Multipolaris) trebuie să aibă o ontologie aparte în contextul relaţiilor internaţionale: ea presupune concomitent un nivel supranaţional, suprastatal (din care motiv ea este o pace internaţională şi externă în raport cu statele), însă, în acelaşi timp, o pace care nu e nici „universală” şi nici „planetară” (adică una internă în raport cu civilizaţiile).

Un al doilea aspect important pentru TLM rezidă în conceptul neoliberal al interdependenţei şi al extinderii nomenclatorului actorilor. În acest caz, de asemenea, trebuie preluate toate aspectele formulate de liberali despre întreaga umanitate, însă raportate la nivelul civilizaţiei. O civilizaţie presupune existenţa unei zone socioculturale, geopolitice şi economice, în cadrul căreia se întrepătrund structuri şi comunităţi ce ţin de această civilizaţie, şi încă într-o măsură mult mai mare decât în condiţiile separării prin graniţe statale. În TLM, reţelele civilizaţionale le înlocuiesc pe cele globale, în rest funcţiile acestora rămân a fi similare. În cadrul civilizaţiei se împletesc între ele nivele diferite ale sistemelor politico-sociale, economice şi culturale, formând o hartă a societăţii mult mai complexă şi nelineară decât în condiţiile modelelor clasice burgheze ale naţiunii politice. Este vorba de o anume „turbulenţă civilizaţională”, ce necesită o abordare nelineară şi o descriere detaliată a fiecărui segment aparte. În cadrul unei civilizaţii, interdependenţa grupurilor şi straturilor sociale formează un joc complex al unor identităţi multiple, care se suprapun, se despart şi se reîntâlnesc în articulaţii noi. Codul civilizaţional comun (de exemplu, religia) creează condiţiile cadru, însă în interiorul acestor graniţe poate exista un înalt grad de variabilitate. O parte a identităţilor se poate întemeia pe tradiţie, însă o altă parte poate reprezenta construcţii novatoare, deoarece civilizaţiile sunt concepute ca nişte organisme istorice vii, care se află în procesul unor transformări continui.

TLM recunoaşte în orice individ care aparţine unei civilizaţii o identitate marcată profund de cultură, în cadrul căreia acesta poate însuşi cunoştinţele de bază, necesare pentru a-şi formula propriul punct de vedere asupra unor chestiuni civilizaţionale concrete. De aceea, la nivelul individual al unui membru de rând al societăţii, în TLM avem, mai curând, un „individ abil” al lui J. Rosenau10 decât nişte X-indivizi realişti; însă competenţa acestui „individ abil” este determinată nu de accesul personal la un spectru larg al unei informaţii necodificate (aşa cum se întâmplă în cazul transnaţionaliştilor şi al globaliştilor), ci de apartenenţa la câmpul semantic al tradiţiei.

Relevanţa Şcolii engleze în RI pentru TLM

Şcoala engleză a TLM este extrem de productivă pentru elaborarea sociologiei intercaţiunii intercivilizaţionale. Exponenţii acestei şcoli priveau mediul relaţiilor internaţionale ca pe o societate şi, respectiv, cercetau în mod prioritar procedurile şi protocoalele de socializare a ţărilor în domeniul relaţiilor internaţionale, adică „socializarea” lor internaţională. Astfel, ei i-au dotat pe teoreticienii RI cu un arsenal de metode, destinate unei cercetări aprofundate a legităţilor intercaţiunilor actorilor relaţiilor internaţionale. În TLM, actorii se schimbă: locul ţărilor este luat de către civilizaţii. Concomitent se schimbă şi structura mediului relaţiilor internaţionale. Aşadar, metodele Şcolii engleze a RI pot fi luate ca bază pentru studierea sociumului intercivilizaţional, ansamblului civilizaţiilor şi a structurii dialogului ce se desfăşoară între ele.

Teza despre „dialogul civilizaţiilor” capătă în optica Şcolii engleze un conţinut concret: acest dialog poate fi conştientizat drept strategie a socializării, ce presupune o dinamică a unor relaţii gradiente, ritmurile excluziunilor/incluziunilor, tentative de a ierarhiza sistemul de relaţii, expansiune şi retragere, protocoale ale războiului şi păcii, echilibrul între material şi spiritual etc.

Din cartea lui Aleksandr Dughin „Teoria lumii multipolare”, în traducerea lui Iurie Roşca

articolo originalehttp://www.flux.md/articole/15856/

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1 Schmitt Carl. Völkerrechtliche Großraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte: Ein Beitrag zum Reichsbegriff für Völkerrecht. Berlin: Duncker&HUmblot, 1991.

2 Petito F., Odysseos L. The International Political Thought of Carl Schmitt Terror, Liberal War and the Crisis of Global Order. London and NEw York: Routledge, 2007; Petito F., Oddysseos L. (2006).

3 Introducing the International Theory of Carl Schmitt: International Law, International Relations, and the present Global Predicament(s)// Leiden Journal of International Law, vol.19 no. 1. 2006.

4 Schmitt Carl. Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für Raumfremde Mächte- Ein Bitrag zum Reichsbegriff im Völkerrecht. Op. cit.

5 Schmitt Carl. Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für Raumfremde Mächte- Ein Bitrag zum Reichsbegriff im Völkerrecht. Op. cit.

6 Petitio F. Dialogue of Civilizations as Global Political Discourse: Some Theoretical Reflections// The Bulletin of the World Public Forum ‚Dialogue of Civilizations’, vol. 1 no. 2, 21-29. 2004.

7 În legătură cu acest concept vezi Manifestul din 2001 al mişcării franceze GRECE (Alain de Benoist) http://grece-fr.com/?page_id=64.

8 Waltz К. Theory of International Politics. McGraw Hill. New York: 1979.

9 Lederach John Paul. Preparing for Peace. Syracuse: Syracuse University Press, 1996; Richmond Oliver P. Peace in International Relations. London: Routledge, 2008.

10 Rosenau J., Fagen W. A New Dynamism in World Politics: Increasingly Skillful Individuals?//JSTOR. Studies Quarterly. 41. 1997.


NOTE ALL’ARTICOLO “DAL MOVIMENTO 5 STELLE AL MONDO 5 STELLE “

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Ho letto l’interessante articolo di William Klinger a proposito di una vision strategica che il Movimento 5 Stelle possiederebbe, avendo per tempo individuato una contrapposizione fra blocco euro atlantico libertario ed individualista, contrapposto ad un altro euroasiatico continentale di matrice totalitaria che dalla Germania arriverebbe alla Cina.

Ci sono comunque piani di lettura differenti che vanno ben identificati.

Sul piano storico, l’interesse inglese sulla nostra penisola fu sempre benevolo fintantoché non si arrivò allo scontro fra una visione del Mediterraneo come “spazio vitale “– espresso dal Fascismo – e quella dello stesso mare come semplice arteria di traffico che, attraverso il Canale d Suez, doveva mantenere pervie le comunicazioni fra Atlantico, Mediterraneo ed Oceano Indiano in cui era distribuito l’Impero Britannico: da quel momento, e fino al crollo del Muro di Berlino, la presenza dei servizi segreti inglesi nelle questioni italiane fu pesante specie durante la strategia della tensione (1).

Parimenti, si ricorderà la presenza dell’attuale Governatore della BCE, Mario Draghi, a bordo dello yacht Britannia a discutere del gigantesco piano di privatizzazioni susseguente alla drammatica crisi di inizi anni ’90 che portò per via giudiziaria all’eliminazione di un’intera classe politica colpevole di essere stata arrendevole con i palestinesi e di aver fatto scappare da Sigonella Abu Abbas, responsabile della morte del passeggero Leon Klinghofer a bordo della nave Achille Lauro, dalla quale, lui paraplegico, fu scaraventato in mare : solo recentemente sono emerse foto e documenti comprovanti il pesantissimo coinvolgimento della stazione CIA di Milano nel passare informazioni alla Procura di Milano, ad un livello tale da scandalizzare (sic!) gli stessi americani costretti ad inviare in Italia un loro diplomatico di lungo corso Reginald Bartholomew tante e tali erano state illegalità commesse.

Da qui partirei per comprendere un’evoluzione nelle modalità di intervento delle centrali statunitensi nel nostro paese. Piazzare bombe e ordigni, attivando stragi e tirando fuori dal cilindro o il solito anarchico o il militante di estrema destra incastrato alla bisogna, diventava sempre più difficile da sostenere, specie con due fattori completamente nuovi: il crollo del comunismo dopo il 1989 e lo scenario derivante dall’attuazione del Trattato di Maastricht che avrebbe privato il paese della leva fondamentale fin lì adoperata per uscire dalle varie crisi economiche – la svalutazione

Impraticabili i mezzi stragisti del passato (altra cosa sarebbero state le stragi di Capaci e via D’Amelio) si poneva il problema di come continuare a controllare le masse : la risposta geniale fu quella di favorire l’ascesa – all’interno del sistema – di movimenti e forze antisistema all’uopo riassorbibili e, se divenuti inutili ( vedi Lega Nord ) scaricabili a favore di altri apparentemente più arrabbiati, più “puri” ed implacabili, purché in grado di incanalare la rabbia popolare secondo procedure costituzionali regolari e tali da legittimare in ultima analisi quello stesso sistema che a parole si vorrebbe aprire (2)

Si tratta però di una strategia miope, con cui si cercano di occultare – o rinviare – i problemi endemici del paese: squilibri secolari fra Nord e Sud, disoccupazione giovanile esplosiva, totale mancanza di una politica industriale agganciata ad istruzione e formazione professionale e culturale di alto livello, capace di implementare innovazione e produttività; ruolo marginalizzato della donna nella società e nel lavoro, e via discorrendo.

Dal 1992, il Paese si ritrova a far coesistere visioni geostrategiche opposte: europeista e nazionalista, mediterranea, atlantica, balcanica ed euroasiatica in senso allargato, con la presenza al centro del proprio territorio di una Chiesa Cattolica che, più che mai con questo Pontefice, ragiona in termini globali. La politica estera è una materia di cui poco si discute in Italia perché di fatto è sempre stata ad appannaggio dell’ENI che prudentemente si è inserita nei corridoi energetici a Nord, a Sud e nel Trans Adriatic Pipeline (TAP) per fare affluire il gas russo in Italia. Non dimentichiamo infine che il livello culturale della classe politica italiana è molto basso, e molti parlamentari manco sanno cosa sia la geopolitica

L’Europa dovrà allargarsi fino ad includere la Russia la quale non potrà certo entrare a condizioni umilianti, con basi NATO nel cortile di casa: un impero è sempre un grande spazio alla base della cui omogeneità ci deve essere l’inclusività dei grandi sistemi fluviali Rodano Reno e Danubio. Fintantoché questa condizione non venga realizzata e l’Europa venga tenuta separata dall’ asse anglo americano di modo che l’accesso dal fiume al mare sia reso estremamente difficoltoso, il continente rimane, 100 anni dopo Sarajevo, una potenziale polveriera. Sono argomenti su cui vorrei anch’io sentire riflessioni serie dal parte del Movimento 5 Stelle, invece impegnato in estenuanti lotte per la purezza ideologica dei propri componenti in contraltare al situazionismo ed al lassismo degli altri partiti; o, peggio, a trovare ascendenti illustri alle proprie tesi (sul punto, ribadisco che Stieglitz abbia negato, in modo piuttosto deciso, di essere mai stato ideologo di riferimento del Movimento) : che alla fine sia sempre attuale il giudizio di Gramsci “ una banda di avventurieri” ?

Come si vede, lo strattonamento per un territorio povero di materie prime è molto forte e dire che il Movimento 5 Stelle abbia una visione geopolitica chiara, consapevole dello scontro in atto, rappresenta una forzatura se basato su una sola dichiarazione di Casaleggio estrapolata dal contesto. Il Movimento riesce sì ad intercettare il malcontento, grazie al sapiente uso dei mezzi di comunicazione: tuttavia, appena si guarda sotto la superficie, si scopre che col territorio i legami sono deboli, non ci sono associazioni sindacali o datoriali nel territorio e talvolta, come dimostrato nel caso Sardegna, anche presentare liste di candidati può divenire un problema….

Note
(1) Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro – di G. Pellegrino – Einaudi (2000)
(2) C. Fontaneto “ Dagli errori altrui “ su Stato & Potenza 27 febbraio 2014

Rifondare l’Unione Europea

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SOMMARIO

 

Editoriale

Claudio Mutti, Rifondare l’Unione Europea

 

Dossario – Rifondare l’Unione Europea

Alessandra Colla, Il ritorno dell’antica fanciulla

Ali Reza Jalali, L’UE: evoluzione storica, istituzioni, rapporti con gli Stati membri

Alain de Benoist, Dall’impotenza al rinnovamento

Spartaco A. Puttini, Stati Uniti d’Europa o Europa degli Stati Uniti?

Fabio Falchi, Europeismo contro euroatlantismo

Aldo Braccio, Europa non sovrana: il ruolo della Commissione

Stefano Vernole, La Germania e la tentazione dell’Europa a due velocità

Andrea Turi, Dove Europa nacque, l’Europa muore

Alessandro Lattanzio, I Gruppi Tattici ed altre formazioni

Antonino Galloni, Europa, dove ci porti?

Giuseppe Cappelluti, Europa e Russia: un rapporto da ricostruire

Maria Amoroso, Le Relazioni dell’UE con la Russia

Giovanni Armillotta, Multipartitismo e frontismo nell’Europa socialista

Katalin Egresi, Esperienze costituzionali ungheresi e italiane

Giacomo Gabellini, Sciacalli e sicari all’assalto dell’Europa

 

Documenti

AA. VV., Il ratto di Europa

Jean Thiriart, La geopolitica, l’Impero, l’Europa

Progetto per una più grande Europa

 

Interviste

Intervista a Vaqif Sadiqov, Ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian in Italia a cura di Giuliano Bifolchi

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto per ciascuno di essi.

RIFONDARE L’UNIONE EUROPEA

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SOMMARIO DEL NUMERO XXXIII (1-2014)

In seguito ai risultati referendari con cui una decina d’anni fa l’elettorato francese e olandese respinse la bozza della “Costituzione europea”, “Eurasia” pubblicò un breve dibattito tra me e Costanzo Preve sul tema Che farne dell’Unione Europea?

Il nostro compianto collaboratore scriveva tra l’altro: “Per poter perseguire la prospettiva politica, culturale e geopolitica di un’alleanza strategica fra i continenti europeo ed asiatico contro l’egemonismo imperiale americano, prospettiva che ha come presupposto una certa idea di Europa militarmente autonoma dagli USA e dal loro barbaro dominio, bisogna prima (sottolineo: prima) sconfiggere questa Europa, neoliberale (e quindi oligarchica) in economia ed euroatlantica (e quindi asservita) in politica e diplomazia. Senza sconfiggere prima questa Europa non solo non esiste eurasiatismo possibile, ma non esiste neppure un vero europeismo possibile”.

Da parte mia osservavo come nel risultato del voto francese e olandese si fossero manifestati non tanto il rifiuto dell’occidentalismo e del neoliberismo, quanto quei diffusi orientamenti “euroscettici” che, essendo espressione di irrealistiche nostalgie micronazionaliste se non addirittura del tribalismo etnico e localista, non solo non possono essere considerati alternativi alla globalizzazione mondialista, ma sono oggettivamente funzionali alla strategia dell’imperialismo statunitense. La mia conclusione, che qui ripropongo, era la seguente.

“La prima cosa da fare, sarebbe cominciare a gettare le basi per la formazione dei quadri di un movimento continentale che agisca per l’unità politica dell’Europa, in relazione solidale con tutte quelle forze politiche (governi, partiti, gruppi ecc.) che negli altri grandi spazi dell’Eurasia lottano per la nascita di un blocco eurasiatico capace di porre termine al tentativo statunitense di conquista del mondo. Solo un movimento politico strutturato su scala europea potrebbe avere la forza necessaria per sviluppare, nei confronti dell’Europa dei burocrati e dei tecnocrati, un’opposizione di senso algebrico opposta a quella degli euroscettici, un’opposizione cioè che sia finalizzata sì a buttar via l’acqua sporca del neoliberismo, ma anche a salvare il bambino europeo, per curarlo, riplasmarlo ed infondergli un’anima migliore”.

* * *

Oggi, a distanza di circa un decennio, l’acqua sporca è più sporca che mai e il bambino sta rischiando di morire. Siamo alla vigilia dell’elezione del nuovo Parlamento e i sondaggi dicono che il 53% dei cittadini europei non si sente europeo. A quanto pare, il “patriottismo costituzionale” teorizzato da Habermas non ha suscitato un grande entusiasmo.

D’altronde l’Europa liberaldemocratica, anziché sottrarsi all’egemonia statunitense ed avviare la costruzione di una propria potenza politica e militare nel “grande spazio” che le compete nel continente eurasiatico, stabilendo un’intesa solidale con le altre grandi potenze continentali, sembra impegnata a rinsaldare la propria collocazione nell’area occidentale ed a perpetuare il proprio asservimento nei confronti dell’imperialismo nordamericano.

L’Unione Europea e le cancellerie europee, dopo aver collaborato con Washington nel tentativo di ristrutturare il Nordafrica e il Vicino Oriente in conformità coi progetti statunitensi, si sono allineate col Dipartimento di Stato nordamericano nel sostenere la sovversione golpista in Ucraina, al fine di impedire che questo Paese confluisca nell’Unione doganale eurasiatica e trasformarlo in un avamposto della NATO nell’aggressione atlantica contro la Russia.

In tal modo l’Unione Europea coopera attivamente alla realizzazione del progetto di conquista elaborato dagli strateghi della Casa Bianca, secondo il quale l’Europa deve svolgere la funzione di una “testa di ponte democratica” [the democratic bridgehead] degli Stati Uniti in Eurasia. Scrive infatti Zbigniew Brzezinski: “L’Europa è la fondamentale testa di ponte geopolitica dell’America in Eurasia [Europe is America’s essential geopolitical bridgehead in Eurasia]. Il ruolo dell’America nell’Europa democratica è enorme.

Diversamente dai vincoli dell’America col Giappone, la NATO rafforza l’influenza politica e il potere militare americani sul continente eurasiatico. Con le nazioni europee alleate che ancora dipendono considerevolmente dalla protezione USA, qualunque espansione del campo d’azione politico dell’Europa è automaticamente un’espansione dell’influenza statunitense. Un’Europa allargata e una NATO allargata serviranno gl’interessi a breve e a lungo termine della politica statunitense. Un’Europa allargata estenderà il raggio dell’influenza americana senza creare, allo stesso tempo, un’Europa così politicamente integrata che sia in grado di sfidare gli Stati Uniti in questioni di rilievo geopolitico, in particolare nel Vicino Oriente. Un’Europa politicamente definita è essenziale per assimilare la Russia in un sistema di cooperazione globale. (…) Un’Ucraina sovrana è una componente di importanza critica in una politica di questo genere, poiché costituisce un sostegno per Stati strategicamente decisivi [strategically pivotal states] come l’Azerbaigian e l’Uzbekistan”1.

Da Mackinder in poi, la strategia geopolitica della potenza talassocratica è sempre la stessa: occorre frazionare la regione-perno, puntando sull’effetto disgregante insito in quelle linee di faglia che corrono all’interno dei cosiddetti “paesi divisi”, cioè di quei paesi in cui consistenti gruppi di popolazione appartengono a culture diverse. Un anno prima che Brzezinski teorizzi la “testa di ponte democratica” in Eurasia, Samuel Huntington, prospettando la possibilità che l’Ucraina “si spacchi in due diverse entità e che la parte orientale del paese venga annessa alla Russia” (2), considera necessario “un forte ed efficace sostegno occidentale, che a sua volta potrebbe giungere solo qualora i rapporti tra Russia e Occidente si deteriorassero come ai tempi della Guerra fredda” (3).
L’interesse vitale dell’Europa non coincide coi piani di conquista nordamericani. L’Europa e la Russia, se vogliono esercitare un peso decisivo sulla ripartizione del potere mondiale, devono instaurare una stretta intesa che obbedisca agl’imperativi della loro complementarità geoeconomica e stabilire un’alleanza politico-militare che contribuisca alla difesa della sovranità eurasiatica. Solo così sarà possibile controbilanciare le iniziative intese a destabilizzare il Continente, risolvere le questioni territoriali, mantenere il controllo delle risorse naturali e regolare i flussi demografici disordinati.

Quando l’Europa lo capirà, una “rifondazione” dell’Unione Europea sarà inevitabile.

1. Zbigniew Brzezinski, A Geostrategy for Eurasia, “Foreign Affairs”, Sept.-Oct. 1997, pp. 53-57.
2. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001, p. 241.
3. Samuel P. Huntington, op. cit., p. 242.

RIFONDARE L’UNIONE EUROPEA

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RIFONDARE L’UNIONE EUROPEA

 

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi.

 

EDITORIALE

Rifondare l’Unione Europea 

 

IL RITORNO DELL’ANTICA FANCIULLA
di Alessandra Colla

Risucchiata in un Occidente che non le appartiene più, l’Europa rischia di morire soffocata da un’ideologia troppo vecchia e incapace di offrirle le risposte adeguate ad affrontare le sfide del nuovo inizio millennio. Il XX secolo ha visto il trionfo dello strapotere occidentale: se vuole non soltanto sopravvivere, ma riaffermare la propria concreta dimensione storica, politica e culturale, l’Europa deve impegnarsi per evitare che il XXI possa diventare realmente il “secolo americano”.

 

L’UE: EVOLUZIONE, ISTITUZIONI, RAPPORTO CON GLI STATI MEMBRI
di Ali Reza Jalali

Il processo di integrazione europea ha visto alti e bassi, ma si è ormai consolidato, sbarrando la strada ad anacronistici ritorni al passato. Il problema del deficit democratico e la carenza di sovranità però invitano ad una seria riflessione sulle istituzioni europee, spesso poco vicine alle istanze dei cittadini. Il ruolo del parlamento europeo poi è troppo marginale, conferendo così molto potere agli organi comunitari non legittimati democraticamente. In tutto ciò i limiti alla sovranità militare e politica europea rispetto agli USA rendono l’Unione Europea molto vulnerabile.

 

DALL’IMPOTENZA AL RINNOVAMENTO
di Alain de Benoist

Nonostante il fallimento dell’Unione Europea, dovuto al fondamentale difetto di volontà politica, la costruzione dell’Europa rimane più necessaria che mai, per consentire a popoli europei troppo a lungo divisi da guerre e conflitti o rivalità di vario genere di riprendere consapevolezza della loro comune appartenenza ad una stessa area di cultura e di civiltà e di assicurarsi un destino comune, senza doversi mai più contrapporre gli uni agli altri. L’autore guarda con attenzione alla proposta di creare in seno all’Unione una struttura di approfondimento, inizialmente centrata sullo spazio renano, che dovrebbe successivamente estendersi a tutti gli altri Paesi disposti a condividerne le regole.

 

STATI UNITI D’EUROPA O EUROPA DEGLI STATI UNITI?
di Spartaco A. Puttini

L’Europa e un suo possibile processo unitario sono da tempo al centro del discorso pubblico e tutto lascia pensare che ci resteranno a lungo. A questa attenzione ritrovata per la questione europea ha contribuito sicuramente la crisi in cui è precipitato il processo d’integrazione dell’Unione europea, crisi che diviene sempre più evidente ad una fascia progressivamente più ampia di persone e che contribuisce a rimettere in discussione i pilastri su cui finora la Ue è stata edificata. Perché di fatto si è affermato l’equivoco che l’Europa si limiti all’attuale Unione europea o, peggio ancora, all’Unione monetaria europea, la così detta Eurozona. Un equivoco pericoloso per la sue implicazioni geopolitiche, un equivoco che limita lo spettro di possibilità che nell’attuale, difficile, congiuntura internazionale si schiude potenzialmente davanti ai popoli europei. La prima questione da affrontare riguarda pertanto la definizione dell’Europa e del suo limes.

 

EUROPEISMO CONTRO EUROATLANTISMO
di Fabio Falchi

Che l’euroscetticismo abbia messo salde radici in tutta Europa non può sorprendere tenendo conto degli squilibri che si sono generati con l’introduzione dell’euro. Né può sorprendere che tali squilibri vengano considerati come la prova del fallimento dell’Unione Europea. Tuttavia, prendendo in esame la questione dell’unificazione dell’Europa a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, si può facilmente mostrare che già De Gaulle (al di là dei suoi evidenti “limiti” ideologici e politici) aveva compreso l’importanza di distinguere l’europeismo dall’euroatlantismo. Una differenza oggi più che mai decisiva per l’indipendenza e la prosperità dell’Europa.

 

EUROPA NON SOVRANA: IL RUOLO DELLA COMMISSIONE
di Aldo Braccio

La Commissione Europea ha un ruolo essenziale all’interno del sistema dell’UE, in termini sia propositivi che di controllo; se la sua funzionalità non è in discussione, essa rispecchia però, nelle sue linee d’azione, l’incapacità politica e la dipendenza dai centri di potere finanziari dell’istituzione europea. Occorrerebbe pertanto una riconversione in positivo delle energie della Commissione, e in questo senso un primo passo potrebbe essere costituito da un serio e diffuso dibattito/approfondimento sulle sue prerogative e soprattutto sull’azione concretamente svolta; l’elezione popolare dei commissari – in alternativa alla mera nomina da parte dei governi nazionali – potrebbe favorire l’uscita dal cono d’ombra del disinteresse e della mancanza d’informazione e permettere la candidatura di personalità non necessariamente allineate ai dettami della finanza cosmopolita.

 

LA GERMANIA E LA TENTAZIONE DELL’EUROPA A DUE VELOCITÁ
di Stefano Vernole

Il dibattito sull’Europa viene coscientemente indirizzato sulle opzioni Euro sì – Euro no e su un ipotetico predominio tedesco. La Germania, che certamente è stata abile a sfruttare le congiunture economiche determinate dall’unificazione europea, si trova ora alle prese con un dilemma: o assumere un vero ruolo guida oppure continuare a subire un processo di demonizzazione scatenato sia all’interno che all’esterno del continente europeo. La tentazione di “spaccare” in due l’Europa potrebbe essere la via d’uscita più “comoda”, ma gli interrogativi sulla sua efficacia rimangono tanti.

 

DOVE EUROPA NACQUE, L’EUROPA MUORE
di Andrea Turi

La crisi della Grecia ha messo a nudo le debolezze dell’Unione Europea in generale, e dell’unione monetaria in particolare. Questo breve articolo non ha la pretesa di risolvere il problema relativo alla questione dei debiti sovrani; soffermandosi sull’attualità di alcuni pensatori dimenticati, esso intende focalizzarsi sulla spaccatura tra il nord ed il sud dell’Europa e mostrare come le misure di austerità abbiano aggravato il divario tra i Paesi “virtuosi” dell’Eurozona e i cosiddetti PIIGS.

 

I GRUPPI TATTICI ED ALTRE FORMAZIONI
di Alessandro Lattanzio

Il concetto del Gruppo Tattico prevede che due unità siano sempre pronte ad intervenire per un periodo di sei mesi, pronta a essere dispiegate per condurre due operazioni distinte, se necessario. Uno o più paesi vi assegnano delle proprie unità militari tattici a turno. Nel primo semestre del 2007, Finlandia, Germania e Olanda crearono il primo Gruppo Tattico; Francia e Belgio il secondo.

 

EUROPA, DOVE CI PORTI?
di Antonino Galloni

La crisi della moneta unica ha evidenziato la debolezza dell’Unione Europea e suscitato un acceso dibattito sulla stessa identità dell’Europa e su quale cammino il “vecchio continente” debba intraprendere per riconquistare lo status di grande potenza planetaria.

 

EUROPA E RUSSIA: UN RAPPORTO DA RICOSTRUIRE?
di Giuseppe Cappelluti

La Russia è indubbiamente una parte integrante dell’Europa, ma i suoi rapporti con quelle regioni del Vecchio Continente che avrebbero dato vita all’Unione Europea sono stati spesso controversi, oscillanti tra cooperazione e diffidenza reciproca, radici comuni e forti differenze culturali, rendendo difficile la ricerca un linguaggio comune. La fine della Guerra Fredda ha dato nuovi stimoli a queste relazioni, ma negli ultimi anni i rapporti tra le due parti hanno vissuto un netto peggioramento. L’Europa Occidentale, infatti, sembra ancora influenzata dalla retorica sui “tartari” di matrice ottocentesca e dalla logica dei due blocchi che caratterizzava gli anni della Guerra Fredda; la Russia, d’altro canto, diffida delle influenze occidentali e non dimentica come molti degli invasori che, nel corso dei secoli, hanno tentato di porre fine alla storia della Grande Madre provenivano proprio da Occidente, dalla Polonia al Terzo Reich passando per Napoleone. Eppure non mancherebbero i motivi per costruire rapporti basati sulla cooperazione e sul rispetto reciproco.

 

LE RELAZIONI DELL’UE CON LA RUSSIA
di Maria Amoroso

Secondo alcuni analisti politici, la nuova crisi istituzionale in Ucraina ha rischiato di compromettere seriamente i rapporti tra Unione Europea e Federazione Russa; secondo altri, essa ha invece rappresentato un’occasione che potrebbe permettere ai due Paesi di uscire dalla fase di stallo in cui si sono venuti a trovare. Ma quali sono, a ben vedere, le linee di continuità dell’altalenante rapporto tra questi due interlocutori? La partita si gioca come sempre su più campi: quello politico, quello economico e quello strategico.

 

MULTIPARTITISMO E FRONTISMO NELL’EUROPA SOCIALISTA
di Giovanni Armillotta

Rassegna sulla vita elettorale delle ex nove democrazie popolari del nostro Continente. Lo schema parlamentare nei Paesi del socialismo reale europeo. La presenza di altre organizzazioni politiche al di là della guida del Partito-Stato. Sorprese nella Repubblica Democratica Tedesca: la volontà di Stalin nel voler dare un proprio partito agli ex nazisti tedescorientali, al contrario di ciò che è successo nel nostro Paese nel riciclaggio degli ex fascisti, extra Msi. Riflessioni politico-giuridiche. Il singolare caso albanese.

 

ESPERIENZE COSTITUZIONALI UNGHERESI E ITALIANE
di Katalin Egresi

Il carattere delle costituzioni moderne presenta alcuni speciali motivi con i quali possono essere analizzate le più importanti differenze e somiglianze delle culture costituzionali. Esse si rispecchiano da un lato nelle teorie di Stato e nei valori costituzionali, dall’altro nel metodo con cui viene revisionata la costituzione. Nel primo senso c’è una grande differenza tra la Legge Fondamentale dell’Ungheria e la Costituzione dell’Italia. Mentre la prima è piena di riferimenti allo spirito della costituzione storica e alla dottrina della Sacra Corona, in una visione conservativa e storicista di Stato, la seconda contiene principi fondamentali basati sul compromesso tra le forze politiche dell’Assemblea Costituente. Allo stesso tempo, entrambe sono costituzioni rigide, malgrado vengano applicate differenti tecniche giuridiche.

 

SCIACALLI E SICARI ALL’ASSALTO DELL’EUROPA
di Giacomo Gabellini

Durante i primi anni del nuovo millennio, la celebre giornalista canadese Naomi Klein elaborò la teoria della “shock doctrine”, la quale sostiene che nel corso degli ultimi decenni le élite hanno sistematicamente sfruttato i momenti di crisi per promuovere politiche neoliberiste che soppiantassero definitivamente la precedente fase “keynesiana”. Tale tesi fornisce una chiave di lettura piuttosto utile ad analizzare le dinamiche politiche ed economiche che hanno interessato l’Europa nel corso degli ultimi decenni.

IL RATTO DI EUROPA
di AA. VV.

Brani di autori greci e latini (Esiodo, Anacreonte, Apollodoro, Ovidio, Orazio, Nonno) sul mito di Europa.

LA GEOPOLITICA, L’IMPERO, L’EUROPA
di Jean Thiriart

Da Les 106 réponses à Mugarza. Da questa intervista inedita, che Jean Thiriart rilasciò nel 1982 allo scrittore spagnolo Bernardo Gil Mugarza, vengono qui tradotte, nell’ordine, le domande 33, 31, 32, 35, 36, 40, 41, 42, 28, 106, 27 con le relative risposte.

 

PROGETTO PER UNA PIÙ GRANDE EUROPA

Bozza geopolitica per un futuro mondo multipolare, redatta dal Comitato per una più grande Europa.

 

INTERVISTA A VAQIF SADIQOV
Intervista all’Ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian in Italia, a cura di Giuliano Bifolchi.

LA SFIDA UCRAINA E IL DILEMMA DI MOSCA

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La lezione geopolitica della “Guerra del Kosovo” nel 1999 aveva convinto anche analisti russi solitamente equilibrati della necessità per Mosca di una drastica virata; secondo Vitalij Tre’tjakov, infatti, per evitare un nuovo scenario jugoslavo nelle zone di influenza russa occorreva tenere a mente che: “Prima lezione. Per sopravvivere nelle condizioni dell’attuale pax americana, occorre o fare ciò che ordinano gli americani, o essere il più possibile forti, innanzitutto sul piano militare […]. Una rapida ripresa del potenziale sia militare che economico può essere garantita solo da un’economia di mobilitazione, condizione politica pressoché ineluttabile della quale è l’instaurazione di un regime autoritario … Quarta lezione. Non credere mai all’Occidente, in nessun caso, né nei particolari, né in generale. Quinta lezione. Alla Jugoslavia seguirà qualcos’altro. Non è esclusa la regione del Dnestr (in Moldavia), dove sono stanziate truppe russe e in genere vivono cittadini russi. O il Caucaso […]. Sesta lezione. L’Europa non esiste. Esiste un governatorato generale dell’Europa amministrato dalla NATO. Dunque che senso ha praticare la diplomazia nello spazio europeo? È irragionevole cercare accordi con i vassalli quando tutto viene deciso dal sovrano. Ne consegue la settima lezione. La scelta che la diplomazia americana lascia al suo partner è solo quella tra morire o essere a stelle e strisce (ma di seconda classe) […]. Trattative strategiche possono essere intavolate solo con coloro che non sono ancora diventati a stelle e strisce e non intendono farlo. Come la Cina, l’India, il mondo islamico […] (1).

E’ evidente invece come in questi anni la diplomazia russa abbia ondeggiato tra il suo desiderio di essere una grande potenza riconosciuta a livello mondiale e la paura di suscitare con le sue legittime ambizioni l’ostilità del mondo occidentale.

Quanti siedono nelle stanze riservate del Cremlino conoscono bene la dottrina geopolitica statunitense e sanno perfettamente che questa prevede la totale subordinazione degli interessi russi alla NATO perfino in quello che a Mosca chiamano il loro “estero vicino”.
La tattica russa è stata finora quella di provare a dividere i paesi europei, allettando i singoli Stati nazionali con opportunità economiche notevoli e nell’impossibilità di ottenere risultati definitivi con i burocrati della Commissione che ha sede a Bruxelles (dove si trova curiosamente anche il Quartier generale dell’Alleanza Atlantica).

La Russia ha creduto per troppo tempo che determinate avances occidentali fossero sincere, quando in realtà mascheravano soltanto il tentativo statunitense di giocare ed “unire” Russia ed Europa in funzione anticinese.

Troppo credito è stato concesso da Mosca ai falsi amici, che soprattutto nel Vecchio Continente la lusingavano nascondendo le loro reali intenzioni.

La sfida ucraina, facilmente prevedibile da almeno dieci anni (2), ha però colpito come un maglio e messo in crisi la tattica “morbida” (e la reazione speculare) adottata fino ad oggi dal Cremlino e dal suo capo Vladimir Putin nei confronti delle provocazioni euro-statunitensi.

Mentre invitavano il mondo e Mosca in particolare a concentrare la propria attenzione sui possibili attentati nel Caucaso da parte di ribelli ormai telecomandati (i cui capi trovano ospitalità solo a Londra e a Washington), i centri di potere atlantisti hanno scatenato una fortissima ed efficace controffensiva in Ucraina proprio durante le Olimpiadi di Sochi.

Il tecnicamente perfetto colpo di Stato realizzato a Kiev, frutto di un sistema di destabilizzazione dei paesi con esperienza ultradecennale, ha consentito così alla NATO di avanzare verso la Russia di alcune centinaia di chilometri e di vendicare parzialmente lo scacco subito dagli Stati Uniti d’America in Siria e in Egitto.

La risposta russa, pur colpevolmente tardiva per i motivi di cui sopra, si è rivelata di un’efficacia straordinaria sia dal punto di vista militare che mediatico, ribaltando completamente le logiche “spettacolari” e propagandistiche tipiche dei mezzi di informazione occidentali.

La Crimea si trova ormai saldamente nelle mani russe senza annunci e senza colpo ferire, mentre il processo di secessione da Kiev e di successiva adesione alla Federazione Russa procede spedito, anche perché la carta tartara difficilmente troverà un reale ascolto da parte di un Erdogan ormai assediato su troppi fronti.

Ora, tuttavia, si gioca la partita più difficile, perché la crisi ucraina è davvero lontana dall’essere risolta.
Sono almeno due gli obiettivi importanti finora raggiunti dai “giocatori” della Casa Bianca: intensificare l’intrusione della NATO in una zona strategicamente determinante per i disegni geopolitici del Cremlino e mettere a dura prova le relazioni economiche tra Russia ed Unione Europea.

Il bersaglio grosso al quale puntano però gli Stati Uniti è la frantumazione del progetto dell’Unione Eurasiatica intrapreso da Vladimir Putin, che senza l’adesione dell’Ucraina avrebbe scarse possibilità di evolvere dall’attuale limitata Unione Doganale raggiunta da alcuni paesi ex sovietici.

Mentre le singole nazioni europee come la Germania (in maniera un po’ ipocrita viste le responsabilità di Berlino nella crisi ucraina) tentano di ricucire l’importante “strappo”, i satelliti di Washington spingono per arrivare ad un conflitto che potrebbe estendersi presto ad entrambe le zone dell’Ucraina.

Anche nella parte orientale, che pure è a stragrande maggioranza filorussa, non solo i servizi segreti di Kiev stanno aumentando la tensione con arresti e minacce, ma le provocazioni degli agenti della NATO potrebbero presto superare il “livello di guardia” ricorrendo ad attentati e false flag.

Mosca deve assolutamente decidere con quali carte e con quali mezzi intende giocare questa partita decisiva, se cioè chinare il capo accettando un accordo simile a quello raggiunto precedentemente con Germania, Polonia e Francia ma poi tradito dall’impeto dei golpisti di Kiev (sostenuti da Washington), oppure accettare la sfida delle sanzioni ribaltando completamente la sua prospettiva ultradecennale di compromesso con Unione Europea e Stati Uniti.

Partendo dalla nuova posizione di forza raggiunta in Crimea, la Russia potrebbe così favorire anche la secessione della parte orientale dell’Ucraina e scatenare un effetto domino in Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud, Bosnia (Republika Srpska) e Kosovo del Nord.
A quel punto sarebbero gli eurocrati di Bruxelles a trovarsi di fronte ad uno scenario di crisi continentale, proprio in concomitanza con le importantissime elezioni di maggio 2014 dove i movimenti identitari e secessionisti, magari sostenuti proprio da Mosca, potrebbero dare una spallata decisiva al fragile castello di carte europeo.

La “lezione ucraina” potrebbe allora rivelarsi una “vittoria di Pirro” per i giocatori atlantici e scatenare una dura reazione della Russia a favore di Siria, Iran, Venezuela, Cuba … e in supporto di una Cina sfidata recentemente dagli Stati Uniti in Thailandia e in Myanmar.
Approfondire in maniera determinante e a livello strategico strutture eurasiatiste come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai e la Banca mondiale dei Brics, consentirebbe perciò di ribaltare la situazione d’impasse in cui Mosca si trova in questo momento.
Ma per fare questo occorrono una chiara consapevolezza geopolitica e la volontà del Cremlino di creare una rete di movimenti fidati che agiscano in profondità e a livello culturale-metapolitico non solo nella Federazione Russa ma anche nelle sue principali zone d’influenza.

Saprà il Presidente Vladimir Putin essere all’altezza di questa sfida, che rischia di essere determinante non solo per i destini della propria nazione ma per quelli dell’intera umanità?

Stefano Vernole è vicedirettore di “Eurasia”

Note

1) Vitalij Tret’jakov, “Il triangolo strategico della Russia”, in Limes, n. 2/1999, p. 168.
2) Stefano Vernole, “Ucraina tra Eurasia e Occidente”, http://www.eurasia-rivista.org/ucraina-tra-eurasia-e-occidente/943/

DIMITRIE CANTEMIR DESPRE DESTINUL IMPERIULUI RUS ÎN MONARCHIARUM PHYSICA EXAMINATIO (CERCETAREA NATURII MONARHIILOR)

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Sfârșitul de sec. XVII și începutul sec. al XVIII-lea aduc mari schimbări în raportul de forțe din estul și nordul Europei. Pe acest fundal geopolitic, țările mai mici, precum principatul Moldovei, își reorientează relațiile diplomatice și

politica externă în funcție de evoluția evenimentelor și rezultatul confruntărilor războinice între cele două mari puteri ale vremii, reprezentate de Imperiul Otoman și Imperiul Rus aflat în plin proces de expansiune. În acest context, în Moldova este numit domnitor de către turci, pentru scurt timp, (1693 și 1710-1711) Dimitrie Cantemir, fiul lui Constantin Cantemir, el însuși domnitor al Moldovei între anii 1685-1693. După măsurile energice întreprinse de Petru I al Rusiei, de limitare a expansiunii otomane înspre nordul și răsăritul Europei creștine, Dimitrie Cantemir, din dorința de eliberare a țării de sub dominația turcă, încheie la Luțk (Луцьк), în Rusia, un tratat de alianță secret cu Petru cel Mare, consemnat în 2-13 aprilie 1711. O parte din tratatul încheiat stă mărturie a voinței celor doi de a birui pe dușmanul lor comun și al întregii creștinătăți:

,,Cu mila lui Dumnezeu, noi, Petru I, ţarul şi autocratul tuturor Rușilor…printr-aceasta facem cunoscut cui se cuvine a şti că sultanul turcesc încheind pace pe 30 de ani şi întărind stipulările acestei păci prin jurământ, a reînnoit-o în anul 1710 cu noi şi tot prin jurământ, acum a uitat făgăduiala sa, călcând-o fără să aibă cel mai mic motiv din partea noastră… în pământul nostru a intrat şi război contra noastră a început. Pentru aceea dar, noi, marele domn…i-am declarat război şi am ordonat oştilor noastre ca, sub comanda noastră personală, să intre în pământurile turceşti şi sperăm că vom birui pe acest perfid dușman nu numai al nostru, ci şi al întregii creştinătăţi.”

Domnitorul moldovean se alătură lui Petru cel Mare în războiul ruso-turc plasând Moldova sub sezeranitate rusească. Luptele se dau la Stănilești, ținutul Fălciu pe Prut, dar rușii și moldovenii sunt înfrânți de turci iar domnitorul Dimitrie Cantemir își încheie domnia fortuit și fuge în Rusia cu familia sa.

Este momentul în care se naște o relație apropiată între el și Petru I care îl numește consilier intim, Principe Serenisim al Rusiei și primește drept recunoaștere a meritelor sale și în semn de aleasă prețuire moșia de la Dimitrievka din Harkov (Ха́рьков) la 1august 1711. Dimitrie Cantemir este cel care îl sprijină în continuare pe binefăcătorul său și îl influențează în mod vădit în dorința acestuia de preamărire și de expansiune teritorială, fiind un suport ideatic și moral prin lansarea unei adevărate teorii mesianice legate în special de evoluția imperiului rus înspre nordul Europei și a dreptului de supremație al Rusiei în această parte a lumii. În anii ce vor urma, noul imperiu țarist se lărgește spre nord, rezultat al capacității militare și strategice a lui Petru cel Mare, expansiune pe care Rusia nu o mai cunoscuse până atunci și care reprezintă până astăzi un moment de referință al idealului geostrategic al Rusiei. Dimitrie Cantemir îi dedică țarului Petru I, în anul 1714, un prim studiu privind cercetarea naturii monarhiilor intitulat „Monarchiarum physica examinatio”.

Momentul istoric ales de autor este cel al confruntărilor directe dintre Rusia și Suedia, ceea ce vorbește de la sine despre efectul psihologic motivațional pe care l-a avut lucrarea lui Cantemir asupra țarului Rusiei în continuarea luptei până la victoria finală anticipată de marele cărturar moldovean. După ce în anul 1709 suedezii conduși de Carol al XII sunt înfrânți la Poltava (Полтава), în anul 1714, chiar anul de apariție al studiului amintit, o flotă rusească îi învinge pe suedezi la Hango și obține controlul asupra Finlandei.

Tradiția imperială a Rusiei este legată de Ivan al IV-lea numit „cel Groaznic” (1530-1584), primul cneaz moscovit care s-a intitulat țar. Mai târziu, Mihail Romanov, nepotul lui Ivan cel Groaznic, a fost ales în 1613 țar, reinstaurând astfel dinastia Romanovilor, care durează până în anul 1917, când Revoluția bolșevică lichidează fizic pe ultimii moștenitori ai dinastiei.

Petru cel Mare (1672-1725) a adoptat titlul oficial de Împărat (Император; Imperator) în urma încheierii în 1721 a Marelui război al nordului împotriva Suediei, titlul de țar fiind folosit neoficial și alternativ de către lumea slavă.

Prin semnarea păcii de la Nystad, Rusiei i se recunoaște dreptul de a stăpâni teritoriile baltice cucerite: Livonia, Estonia și Ingria. S-a deschis astfel Rusiei o cale de acces direct către Europa Occidentală. Așadar, Rusia în vremea lui Petru cel Mare devenise cel mai mare stat din lume. Având o suprafață de trei ori mai mare decât Europa, Imperiul Rus se întindea de la Marea Baltică până la Oceanul Pacific. Sunt foarte multe de spus despre țarul Petru cel Mare. El este arhitectul Rusiei moderne după model european. În anul 1703 tânărul țar al Rusiei s-a aflat într-o călătorie la gurile fluviului Neva, la vărsarea în Golful Finlandei. Aici va avea revelația ridicării unei mari cetăți care să fie o nouă capitală a Rusiei în contact direct cu Europa. Tot ceea ce a întreprins ulterior țarul este legat de imaginea incintei sacrului. Această „imago mundi” trebuia să aibă un centru pământean pe care țarul Petru I l-a fixat în nord punând fundamentul unui nou imperiu, Imperiul Rus sau Monarhia Boreală. În capitala noului imperiu, Sankt-Petersburg, sacrul irupe în lume. Modelul este unul cosmogonic. Facerea Lumii devine arhetipul gestului creator al țarului. O „axis mundi” se va ridica în centru unde va fi construită o catedrală ce va purta numele sfinților Petru și Pavel. Acest loc va reprezenta o răspântie, un reper sacru, spre cele patru puncte cardinale ale noului imperiu. Simbolismul cosmic al centrului face ca orașul să fie considerat un nou omphalos (ὀμφαλός) al biruinței creștine care iradiază asemenea Împărăției cerești către cele patru orizonturi. Locul îi conferă lui Petru I și avantaje lumești, cum ar fi o ieșire strategică la Marea Baltică spre nord și vest.

Noua capitală, Sankt-Petersburg, a devenit o metropolă impunătoare rivalizând ca frumusețe cu Veneția și ca opulență cu Versailles. Petru I a scos Rusia din izolare recunoscând înapoierea și rămânerea acestui imperiu în umbra culturii și civilizației occidentale, care erau mult mai avansate. Pentru a crea punți de legătură între Orient și Occident, între Rusia și Europa, țarul va călători în Apus și din dorința de a găsi noi aliați în lupta antiotomană. În marea sa misiune diplomatică europeană, Petru cel Mare a vizitat Sfântul Imperiu Roman, Anglia,

Olanda și Brandenburgul. El a reorganizat armata terestră și a pus bazele flotei militare ruse conform cu modelele occidentale.

Punctul comun care i-a legat pe cei doi, Petru I și Dimitrie Cantemir, a fost spiritul umanist și enciclopedist care i-a caracterizat. Țarul a inițiat o serie de reforme în domeniul culturii, științei și învățământului.

Petru cel Mare a promovat moda occidentală, a înființat școlile primare în ideea eradicării analfabetismului, a pus bazele Academiei Ruse de Știință, și altele. Dimitrie Cantemir format și educat în fosta capitală a Imperiului Bizantin, Constantinopol, aduce în Rusia, odată cu exilul său, un important bagaj de cunoștințe legat de științele naturii, filosofie, literatură sau istoria Imperiului Otoman, principalul inamic al Imperiului Rus. (vezi Historia incrementorum atque decrementorum Aulae Othomanicae) În această ultimă perioadă a vieții a scris cele mai importante opere ale sale, începutul scrierilor din Rusia fiind făcut de textul scris în greacă al „Panegiricului” și cel latin intitulat „Monarchiarum physica examinatio”, ambele prezentate de fiul său, Șerban, cu ocazia sărbătorilor de iarnă ale anului 1714 în fața lui Petru I, căruia i le dedică.

În același an, Dimitrie Cantemir este ales membru al Academiei din Berlin. Contribuția lui Dimitrie Cantemir la dezvoltarea spiritului științific și a cunoașterii filosofice din vremea sa este deosebit de importantă. El pune bazele evoluționismului și cauzalității în istorie, susține cu argumente științifice teza etnogenezei și a vechimii romano-moldo-vlahilor, aduce o contribuție însemnată sistemului logicii generale în filosofie, face studii de istoria religiilor și a cunoașterii sacrului, deschide drumul literaturii către realism prin noi specii ale epicului precum romanul, pamfletul, eseul. Este, în același timp, om politic și de știință, istoric, filosof, teolog, scriitor poliglot, enciclopedist, etnograf și muzicolog. Dimitrie Cantemir este un erudit al timpul său și un artist, un „uomo universale”. Așadar, fostul domnitor al Moldovei era un om de o cultură vastă îmbinând însușirile de strateg și om de stat cu cele de savant de talie europeană. Cantemir se bucura pe drept de apreciere la curtea țarului datorită erudiției, fiind primul cunoscător din Rusia al literaturii arabe și un reprezentant emerit al orientalisticii ruse. Din ordinul țarului Petru I, Dimitrie Cantemir publică în anul 1722 la Sankt-Petersburg și lucrarea „Sistemul legii mahomedane.”

În acest timp, la curtea țarului Petru cel Mare era o ambianță de emulație creatoare, cultural-științifică și nu poate fi negat rolul țarului în stimularea activității de creație, fapt ce poate fi evidențial și din opera lui Cantemir deosebit de prolifică în această etapă a vieții sale. Cu siguranță, Dimitrie Cantemir n-ar fi putut scrie operele sale fără sprijinul protectorului și aliatului său, împăratul Petru cel Mare. La curtea țarului, fostul domnitor al Moldovei s-a bucurat de un mediu cult și de onorurile date de rangul său. În agenda lui Petru I s-a păstrat următoarea notă despre Cantemir:

Acest domnitor este un om foarte înțelept și un sfetnic capabil.

Lucrarea de mici proporții intitulată „Monarchiarum physica examinatio” are o mare importanță atât pentru țaratul lui Petru cel Mare cât și pentru istoria și devenirea Rusiei imperiale. Acest text, aproape necunoscut și despre care s-a scris atât de puțin, are și o altă importanță legată de lămurirea atitudinii autorului studiului față de personalitatea și măreția țarului Petru cel Mare precum și față de Rusia, a doua patrie adoptivă a sa. Acest important manuscris, relevant prin convingerea lui Dimitrie Cantemir despre însemnătatea și misiunea europeană și mondială a Rusiei, vorbește de la sine despre mesianismul teoriei marelui savant moldovean care se desprinde din conținutul teologic dar și rațional al textului.

Este de la început invocată voința divină a „Blândului Împărat al lumii”, legea supremă care nu este alta decât Sfânta Scriptură dar și natura cu legile ei:

« O Dumnezeule drept și natură rațională, împlinește aceasta! – ( „ Ah Juste Deus, prudensque natura, fac tandem.”) »

Suportul motivațional al teoriei invocate de omul de știință și eruditul Cantemir nu este numai unul mistic ci și rațional, autorul sprijinindu-se în studiul său pe un cumul de date raționale și naturale. Cercetarea „naturii monarhiilor” folosește datele istorice, filosofice și ale științelor naturii și este evidentă chiar din titlu orientarea raționalistă, umanistă și chiar iluministă a savantului. Cantemir își pune astfel în valoare cunoștințele teoretice acumulate în urma studiului comparativ făcut la confluența mai multor civilizații. Cu toate acestea, cercetarea nu este una pur epistemică ci dihotomică, rațional-mistică, în care autorul îi recunoaște și aici Marelui Creator supremația.

Raționalul teoriei lui Dimitrie Cantemir nu exclude iraționalul ci îl motivează benefic dând studiului autoritate, credibilitate, eficacitate și tărie. Fundamentul acestei lucrări este susținut de trei piloni relaționali fundamentali: misiunea istorică și viitorul Rusiei, dizolvarea și dispariția Imperiului Otoman, considerat drept un fruct contra naturii și aureolarea personalității țarului Petru cel Mare, considerat drept un salvator al lumii creștine, un trimis al lui Dumnezeu care să înfăptuiască dreptatea și să elibereze de sub robie țările supuse jugului otoman. În cercetarea naturii monarhiilor, ( Monarchiarum physica examinatio) istoricul și filosoful Dimitrie Cantemir susține că istoria lumii cunoaște patru tipuri de monarhii (imperii) care s-au succedat de-a lungul istoriei. Importantă nu este evoluția acestora în timp ci poziționarea în funcție de punctele cardinale, ceea ce le asigură o ciclicitate. Enumerarea monarhiilor nu se face în ordinea unei succesiuni a imperiilor, care poate fi aleatorie, ci corespunzător împărțirii lumii în funcție de orientarea punctelor cardinale. „Filosofii naturaliști, susține Cantemir, enumeră monarhiile din întreaga lume nu în ordinea succesiunii la stăpânire ci corespunzător cu cele patru părți ale lumii.”

Popoarele sunt grupate în patru arii geografice corespunzător celor patru puncte cardinale grupate în patru monarhii astfel: monarhia răsăriteană (orientalem),

monarhia de miazăzi (meridionalem; mediam diem), monarhia apuseană

(occidentalem) și monarhia nordică (borealem; mediam noctem).

Primul imperiu a fost cel oriental cuprinzând Asiria, India, Persia și se întindea în timp până la cucerirea acestui spațiu de către Alexandru cel Mare (Μέγας Αλέξανδρος).

Cel de-al doilea a fost cel de sud care cuprindea Egiptul, Africa, Macedonia și Grecia.

Al treilea imperiu a fost cel de Apus (Imperiul Roman). Monarhia Apuseană,

spune Cantemir, în decurs de mai multe secole, în mod treptat, a pus stăpânire pe alte monarhii sau popoare mai puțin puternice. Expansiunea ei a fost, în cele din urmă, limitată, pentru că ea se găsește la marginea lumii și nu în centrul ei. A patra monarhie este recunoscută de Dimitrie Cantemir a fi în Nord, Imperiul Rus. Această previziune a cărturarului Cantemir este lansată înainte ca suveranul Rusiei, Petru cel Mare, să fi fost recunoscut ca împărat. Dată fiind grația divină, spune autorul, această împărăție trebuie să se întindă și să crească. Comparativ cu monarhia din apus, Monarhia Boreală a Rusiei, în raport cu răsăritul și apusul, este partea centrală și de mijloc ce favorizează o extindere liberă dinspre zona centrală către Occident. Acesta din urmă va ceda din teritorii, găsindu-se într-un proces istoric de involuție. Chestiunea Imperiului Otoman, care nu se supune legilor naturale și divine, este pe larg analizată. Din împotrivirea asupra cursului natural al evoluției lumii, spune Cantemir, se naște fie un avorton, fie un monstru cu caracter respingător care crește contrar legilor naturii. („Ita his persimillima considerari potest saeva Othomanorum Monarchia. Quae ut abortivus et exlex naturae foetus.”) O asemenea făcătură poate fi considerată cruda monarhie a otomanilor. Fiind un avorton monstruos al istoriei, această pseudo-monarhie otomană nu are o misiune divină clară. Mersul istoric al Imperiului Otoman nu este un destin, ci o fatalitate a maleficului. Ea nu reprezintă o voință supranaturală ci acumularea energiilor răului care pârjolește pământul.

Ordinea importanței și măreției unui imperiu nu este dată de succesiunea istorică a monarhiilor. Aici, Dimitrie Cantemir invocă pe cel mai mare filosof al antichității, Aristotel, care denumește jumătatea răsăriteană a lumii drept „partea dreaptă”, un truism demonstrat chiar de natură. Stagiritul demonstrează că motorul prim atribuit Creatorului face ca mișcarea să aibă un sens de la răsărit către apus (ab Oriente ad Occidentem) și nu invers. În același fel, în mod necesar, se mișcă tot ce este în lume. Din această lege a naturii se deduce că Monarhia Rusă va înainta circular de la răsărit în direcția altor părți ale lumii. Orice mișcare contrară este una contra naturii ce nu poate învinge forța motorului primordial. Încercările inverse de împotrivire la nivel mondial produc dezastre naturale și sociale ca urmare a opoziției la sensul mișcării firești și naturale, care este unul al devenirii. Lupta se soldează în cele din urmă cu dezintegrarea vectorului opozant ca urmare a acumulărilor de energie primordială blocată, căci însăși rațiunea de a fi a energiei motorului primordial este mișcarea de la Est la Vest. Această mișcare benefică antrenează întreaga lume. Tot așa, lumina de la răsărit vine și nu invers.

(„Primam Monarchiam circulari tem ab Oriente versus alias mundi parti progredi”). Teza este confirmată și de Sfânta Scriptură în „Facerea”, cap.2, unde se spune că Dumnezeu a creat pe om și raiul în care l-a așezat în partea de răsărit a lumii, raiul fiind împărțit de patru râuri în patru regiuni edenice.

Cercetarea naturii monarhiilor, întreprinsă de Cantemir, trebuie văzută, în mod corelativ, în contextul istoric al derulării ofensivei militare conduse de țarul rus spre nordul Europei în scop expansionist pentru a forța o ieșire la Marea Baltică și a deveni o mare putere în zonă și în lume. Fără a lega teza, potrivit căreia Rusia ar fi un imperiu al nordului, de orientarea strategică a momentului de expansiune spre nord, o asemenea încadrare a Rusiei ca țară nordică este de-a dreptul bizară atâta timp cât percepția este că Rusia este o mare putere răsăriteană și nu nordică sau numai nordică. Cantemir susține că îmbătrânirea monarhiei din Apus înseamnă începuturile Monarhiei Ruse. În susținerea tezei naturii evoluției monarhiilor, Cantemir se folosește de teoria mișcării de la răsărit către apus a lui Aristotel transformând-o într-o teorie a „mișcării monarhice”din care ar rezulta modificări de sens și deplasare geografică, direcția impusă de moment fiind una imperială spre nord. Monarhia de Nord, în acest sens, va fi Imperiul Rus în care vor intra nu numai popoarele slave ci și cele nordice. Odată cu desăvârșirea cercului și încheierea unui ciclu, al patrulea imperiu devine mai puternic decât precedentele acumulând din energia pierdută a acestora. Ulterior apariției studiului, în 1721, Suedia este înfrântă iar Rusia devine cel mai mare imperiu care se întindea de la Marea Baltică până la Oceanul Pacific. Studiul lui Dimitrie Cantemir, dedicat lui Petru cel Mare, nu este întâmplător, el reprezentând un real sprijin politic și moral la un moment important din viața țarului rus și decisiv ulterior pentru soarta Rusiei ca mare putere. Acest moment de vârf în istoria imperială rusă a influențat destinele viitoare ale Europei și ale lumii. Previziunile lansate de Cantemir în studiul său, în calitate de consilier intim al țarului, s-au adeverit. Pe alte fronturi ale luptei de idei, Dimitrie Cantemir va purta o adevărată polemică cu adversarii tezei misiunii istorice a Rusiei, care negau capacitatea țaratului rus de a reprezenta o putere de prim rang în contextul geopolitic european.

Imperiile sunt spații geografice cardinale având un centru de putere și unul sau mai multe popoare aflate în aria de dominație. Odată închis cercul celor patru monarhii, reprezentate de fapt de grupuri de popoare supuse unui centru imperial, se reia un nou ciclu. Această dezvoltare a fiecărei monarhii cunoaște o evoluție dialectică, un model natural ce urmează legea universală a cauzalității, a devenirii, de la naștere, apoi înflorire, atingerea unui punct maxim de evoluție și pe ramura descendentă, decăderea și dispariția. Sunt evidente la Cantemir, cu un secol înainte, atât în studiul de care ne ocupăm, cât mai ales în „Incrementa et Decrementa Aulae Othmannicae” ( Creşterea şi descreşterea Curții Otomane), elemente de dialectică a evoluției istorice pre-hegeliene cum ar fi sensul devenirii, schimbarea, legea unității și luptei contrariilor sau legea negării negației, chiar dacă filosoful și istoricul Dimitrie Cantemir nu le denumește în acest fel. Etapele creșterii și descreșterii unui imperiu corespund cu etapele evoluției și involuției naturale și istorice. Tot ce se dezvoltă și formează obiecte particulare, iar din aceste obiecte concrete fac parte și monarhiile, subliniază convingător autorul,(…)„trebuie să apară și să dispară, să se modifice și să se reîntruchipeze, să se nască și să moară, să aibă un sfârșit oarecare, afară de cazul când se menține prin grația divină (…) căci Dumnezeu și natura nu fac sau nu cunosc nimic întâmplător, adică dezordonat.

Cantemir se lasă condus în studiul său de un raționament indubitabil și deductiv, cum este cel al axiomei „panta rhei”( Πάντα ῥεῖ ) ( Totul curge, nimic nu rămâne neschimbat), cunoscut din filosofia greacă veche. El gravitează între credința în Dumnezeu, ca mare ordonator al lumii în mișcare, o cunoaștere irațională a transcendentului, și spiritul rațional și practic al cunoașterii științifice novatore. Monarhiile sunt părți din atotcuprinzătoarea și unica monarhie/împărăție a lui Dumnezeu care nu are margini și este eternă.

Monarhiile pământene se pot stinge dar popoarele peste timp pot să renască din cenușa imperiului și să dea naștere la o nouă monarhie în aceleași arii geografice date de punctele cardinale care fac legătura cu cosmosul. De pildă răsăritul este direcția din care răsare soarele iar apusul punctul în care soarele dispare de pe bolta cerească. Mișcarea percepută pământean, această derulare în timp și spațiu, alternanța diurn/nocturn, a anotimpurilor, lasă doar impresia nașterii, devenirii și a morții care la nivel universal cunosc o cu totul altă alcătuire și în cu totul alte sisteme de referință. Monarhia Boreală sau „Aquilon”, așa după cum i se mai spune după vântul rece care bate năprasnic în timpul iernii dinspre nord-estul Rusiei și care în țara de naștere și de domnie a principelui Dimitrie Cantemir, Moldova, poartă numele de „Crivăț”, va trebui, spune autorul studiului asupra monarhiilor, să existe fie în prezent, fie neapărat în viitor.

În puterea de prevestire a Sfintelor Scripturi cred și unii păgâni, cei mai celebrii dintre arabi și cei mai savanți dintre rabini. Cea de-a patra monarhie, cea Nordică, trebuie să înceapă să crească. „Monarchiarum physica examinatio”se încheie, cum era și firesc, cu un elogiu adus de Dimitrie Cantemir împăratului Nordului pe care nu ezită să-l caracterizeze drept cel mai înțelept și cel mai războinic, lăsându-ne pe noi cititorii să ghicim cine este cu adevărat acest monarh pe care nimeni dintre monarhi nu-l întrece în umanitate și pietate. Psalmistul divin prorocește că această împărăție și stăpânirea ei fericită va dura multe veacuri: „Bona ante multa saecula a divino Psalmista praecantata correspondere augurantur.”

BREVE PROFILO GEOSTRATEGICO DELLA SPAGNA FRANCHISTA NEL DOPOGUERRA

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Prima di analizzare le caratteristiche geostrategiche e politiche della Spagna retta da Francisco Franco, è doveroso soffermarci su alcune premesse. Solitamente si considera la Spagna nel periodo anteriore al 1936 una nazione ai margini dell’Europa, dal punto di vista economico e politico. Questa classificazione non corrisponde perfettamente alla realtà. Già prima della guerra civile, la Spagna manteneva fitti rapporti con le altre potenze europee e specialmente con quelle interessate all’utilizzo del Mediterraneo per i propri interessi strategici. Si pensi alle importanti transazioni economiche anglo-spagnole: nel 1935 il 21% delle esportazioni britanniche di armamenti avveniva verso la Spagna, mentre quest’ultima esportava importanti quantità di minerali agli inglesi¹. Ancora, le relazioni e gli accordi tra i rappresentanti del variopinto agglomerato politico iberico e gli altri partiti europei erano frequenti. Non solo le affinità politiche congiungevano gli uomini spagnoli, francesi ed italiani, ma anche la stessa posizione strategica della Spagna giocava un ruolo chiave nel gioco delle alleanze. L’Italia di Mussolini era particolarmente interessata all’utilizzo delle Baleari per tagliare le vie di comunicazione francesi con le colonie nord africane ed ottenere così una completa egemonia nel Mare Nostrum. I dirigenti fascisti, per realizzare i propri obiettivi geostrategici, mantenevano cordiali contatti con i falangisti ed i monarchici spagnoli, quest’ultimi molto vicini alla casta militare e quindi in grado di poter influenzare politicamente un eventuale pronunciamiento. Questo intreccio di interessi economici, politici e militari dei paesi europei nei confronti della penisola spagnola spinse le varie potenze dell’Antico continente ad assumere le relative differenti posizioni durante la guerra civile, definita come una prova generale dell’ormai prossimo conflitto mondiale. Gli anni che seguirono il celebre alzamiento del 17 luglio 1936 diedero l’opportunità a Franco di consolidare e rafforzare i tratti politici ed economici della sua nuova Spagna. Era una sfida sicuramente molto difficile quella che si profilava al Caudillo, il quale, inoltre, avrebbe dovuto affrontare l’arduo compito di rimettere in piedi una forza militare gravemente menomata dal conflitto con i repubblicani. La neutralità spagnola nel corso della Seconda Guerra Mondiale contribuì a non accentuare il bilancio negativo dell’economia, già di per sé in crisi, e soprattutto, considerando l’esito del conflitto per l’Asse, fu una mossa che consolidò nel breve periodo il consenso popolare nei riguardi del Generalissimo. Sventata l’ipotesi della guerra, l’arretratezza della Spagna nei confronti delle altre potenze rimaneva però consistente. Questo era un fattore da tenere in grande considerazione; la “Cortina di ferro” sancì l’inizio del bipolarismo, e il regime franchista, che aveva sempre tenuto in buona considerazione l’appena sconfitto nazifascismo, non riusciva chiaramente a guadagnarsi la benevolenza dell’opinione pubblica mondiale. Eppure il Caudillo, nonostante non potesse più contare sui vecchi alleati ideologici, non ricercò con insistenza, fino alla fine degli anni ‘40, nuovi sbocchi in altre terre. Una politica di parziale isolamento internazionale fu molto probabilmente una mossa poco oculata, soprattutto per le condizioni in cui verteva la Spagna. Un eventuale crisi diplomatica, o addirittura una guerra, comunque improbabile, con il mondo democratico-liberale sarebbero state disastrose, considerando che dopo il 1945 le forze armate spagnole avrebbero potuto al massimo combattere una riedizione della Seconda Guerra Mondiale ma assolutamente non avrebbero potuto competere con la preparazione delle altre nazioni. La Spagna, geograficamente protesa verso l’Oceano e parte integrante del Mediterraneo occidentale, avrebbe dovuto avere nelle unità navali la sua punta di diamante. Il regime franchista avrebbe avuto, inoltre, la necessità di agire tempestivamente con la forza diplomatica e militare della flotta qualora uno dei suoi possedimenti coloniali, come la lontana Guinea Equatoriale per esempio, fossero stati messi in pericolo. Sfortunatamente l’Armada Española non faceva eccezione ed era infatti tutt’altro che competitiva. Durante il conflitto del 1936-1939 la marina subì il peso della guerra al pari delle altre forze armate. I continui ammutinamenti, il sospetto spesso infondato verso gli ufficiali, le due Armade contrapposte, quella Repubblicana e quella Nazionalista: tutto questo fu l’emblema di quel sanguinoso conflitto fratricida che si svolse, nel suo piccolo, a bordo della maggior parte delle navi spagnole. Durante la guerra erano state messe fuori combattimento le uniche due corazzate della flotta, la “Jaime I”, utilizzata dai repubblicani, e la “Alfonso XII” manovrata dai nazionalisti. Grave perdita fu anche quella dell’incrociatore pesante “Baleares”, la cui costruzione iniziò nel 1928 secondo i dettami stabiliti dalla Conferenza navale di Washington. Molto significativo in questo contesto è il fatto che il gemello dello sfortunato “Baleares” era l’incrociatore “Canarias” che rimase la nave ammiraglia dell’Armada Española fino al 1975. Poco più consistente era il numero degli incrociatori leggeri, tra cui il “Méndez Núñez”, l’“Almirante Cervera”, il “Príncipe Alfonso” e il “Miguel de Cervantes”, tutti risalenti al periodo antecedente l’alzamiento. Insomma, la Marina possedeva unità antiquate e in un numero comunque troppo contenuto anche per poter esercitare, in caso di conflitto, il Sea denial a protezione delle proprie coste mediterranee o a difesa del Sahara spagnolo rivierasco dell’Oceano Atlantico.

Appurata l’arretratezza dell’apparato militare spagnolo, ed in particolare della Marina, proprio per quanto riguarda i possedimenti coloniali bisognerebbe dedicare una breve analisi a parte. Nel dopoguerra la Spagna manteneva il protettorato del Marocco, l’estesa regione del Sahara occidentale, il territorio di Capo Juby e l’Ifni, oltre che la lontana Guinea spagnola. Da un punto di vista strettamente strategico l’eredità coloniale aveva complessivamente poco valore. Le Canarie offrivano già un avamposto nell’Oceano Atlantico e un ruolo speculare veniva ricoperto dall’arcipelago delle Baleari nel bacino mediterraneo. La Guinea Equatoriale, isolata, non riusciva da sola a dare un importante slancio verso l’Oceano Indiano, anche perché quest’ultimo sarebbe stato facilmente raggiungibile dalle le navi iberiche attraverso il canale di Suez. Il Marocco spagnolo era invece ancora fondamentale, se non altro per le importanti basi installate in quelle che oggi sono le plazas de soberanía; tra le più importanti erano sicuramente quelle di Melilla e Ceuta, quest’ultima come un potenziale contraltare di Gibilterra, data la sua posizione geografica. Dal punto di vista economico, i giacimenti di ferro del Rif costituivano un’importante risorsa per la penisola Iberica. I materiali ferrosi venivano esportati principalmente alla Gran Bretagna e naturalmente verso la penisola iberica². Nel Sahara era stata realizzata l’oasi artificiale di El Aaiún, divenuta in breve tempo il centro amministrativo e militare, oltre che la città più popolosa della più occidentale delle colonie spagnole. Il terreno ricco di fosfati, inoltre, costituiva il principale interesse nei riguardi di quel territorio africano. La Guinea era utilizzata tradizionalmente per lo sfruttamento delle piantagioni di cacao e caffè. L’impulso alla coltivazione di questi due prodotti tropicali viene fatto risalire all’inizio del XX secolo, quando l’Impero spagnolo dovette sopperire alla perdita di Cuba e delle Filippine. Vale la pena ricordare che, se nel panorama economico globale questo piccolo Stato fu relativamente poco influente nell’era franchista, la situazione cambiò nel 1996, anno in cui vennero scoperti degli importanti giacimenti petroliferi.

L’impossibilità di utilizzare delle forze armate dotate di armamenti moderni, il possesso di terre di scarso valore strategico, fattori uniti ad un’economia già in crisi, portarono il franchismo, già nella prima metà del 1950, all’avvicinamento economico e militare verso le potenze occidentali, con un occhio di riguardo nei confronti degli Stati Uniti. A quest’ultimi si deve l’ammodernamento della flotta e dell’aviazione franchista. Per quanto riguarda la Marina, a cavallo degli anni ‘50 e ‘60 vennero prestate agli spagnoli 5 cacciatorpediniere delle classe “Fletcher”, ribatezzata classe “Lepanto” dagli iberici. Nello stesso arco di tempo Madrid poté affiancare ai vecchi aerei tedeschi d’anteguerra i più moderni Lockheed T-33 Shooting Star, F-86 Sabrejet e HU-16 Albatross, tutti di fabbricazione statunitense. L’importanza dell’apporto militare di Washington si fece sentire durante la cosiddetta “Guerra Olvidada” del 1957-58, cioè la “Guerra dimenticata” dell’Ifni, l’ultimo conflitto armato sostenuto dal regime di Franco. Gli Stati Uniti vietarono alla Spagna l’utilizzo di qualsiasi mezzo bellico da essi prodotto. La conseguenza fu che l’aviazione franchista, in piena guerra fredda, dovette servirsi dei tedeschi Heinkel He-111 e Junkers Ju-52, due mezzi protagonisti della ormai lontana Guerra Civile Spagnola. La guerra dell’Ifni fu un salto nel passato non solo per l’utilizzo di armamenti obsoleti. Per respingere le truppe marocchine, che desideravano riappropiarsi dell’Ifni e del Sahara occidentale avanzando anche attraverso la Mauritania francese, venne costituita una coalizione franco-spagnola che quasi riportava alla mente la lotta che questi due paesi occidentali ingaggiarono contro il tenace ʿAbd el-Krīm nella prima metà del 1920.

Nel complesso, però, quella di Franco era una Spagna che guardava alle Americhe più che al Mediterraneo. Si parva licet componere magnis, si potrebbe scorgere una sottile somiglianza con l’Impero spagnolo della fine del XV secolo, quando tutta l’attenzione dei Re Cattolici era diretta ai territori d’oltreoceano. Se è vero che nel dopoguerra, e nella fattispecie nel periodo “autarchico” del franchismo, la maggior parte delle esportazioni spagnole era diretta verso Londra (20,5% negli anni 1946-1950 e 16,62% nel periodo dal 1951 al 1955³), gli Stati Uniti contendevano il primo posto alla Gran Bretagna. Verso di essi, infatti, era diretto il 15,88% delle esportazioni spagnole nel periodo 1946-1950 e il 12,13% nel 1951-1955⁴ ma soprattutto, già nel periodo 1946-1955, la maggior parte delle importazioni spagnole provenivano da Washington⁵. Non solo gli Stati Uniti però attiravano le attenzioni di Franco ma, nonostante le profonde divergenze ideologiche, la Spagna mantenne durante la Guerra Fredda rapporti diplomatici ed economici anche con Cuba. Nel 1966 si registrò il picco del volume degli scambi tra i due paesi, quando il commercio con Cuba rappresentò il 2,8% del commercio totale della Spagna⁶. Anche dal punto di vista militare, molto solidi erano i legami con gli Stati Uniti. Quest’ultimi, con il Patto di Madrid del 1953, poterono utilizzare basi aeree e navali in territorio spagnolo, opportunamente riammodernate grazie ai capitali statunitensi. Con questo accordo i due Stati raggiunsero un definitivo consolidamento di una durevole alleanza iniziata già dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Dure critiche arrivarono per questo patto dai paesi socialisti, i quali associavano la politica internazionale di Franco a quella di Tito, anch’egli firmatario di patti economici e militari con le potenze occidentali. Come si è detto, la Guerra Fredda non fu dunque un periodo di completo isolamento per Franco, nemmeno nel suo periodo considerato più “chiuso”. Chiaramente le riforme economiche che portarono al Desarollo, e cioè al “miracolo spagnolo” del 1957, unite all’anticomunismo ancora presente nel sistema franchista, portarono nella penisola iberica una più grande quantità di capitali stranieri. La Spagna si trovò inclusa de facto nel polo occidentale e rimase particolarmente invisa al campo socialista, con cui i rapporti economici ed ovviamente politici erano complessivamente molto deboli. Difficile dunque tracciare in modo omogeneo una panoramica della politica franchista, soprattutto quella immediatamente successiva alla Guerra Mondiale e anteriore alle aperture economiche. Come si è detto, in quel complesso periodo la Spagna conservò i vecchi legami con Londra, si preoccupò di mantenere i propri domini coloniali anche con la forza, consolidò una alleanza con gli Stati Uniti considerata improbabile; non si può, in definitiva, parlare di una posizione di equidistanza da parte di Franco durante la Guerra Fredda dal momento che l’isolamento spagnolo era per lo più nei riguardi delle potenze socialiste e non verso il mondo occidentale.

 

NOTE

1. Enrique Moradiellos, La perfidia de Albión. El gobierno británico y la guerra civil española, Madrid, 1996, pg. 19.
2. José Maria Cordero Torres, The Spanish Territories in Africa 1940-50, pg. 274, Institut de Sociologie de l’Université de Bruxelles.
3. Antonio Tena Junguito, New series of the Spanish foreign sector, 1850-2000, Madrid, 2007.
4. Ibidem.
5. Ibidem.
6. Cfr. Haruko Hosoda, La Spagna franchista e Cuba, “Eurasia”, n. 1/2013.


LA VIA MEDITERRANEA: SINERGIE TRA EUROPA E VICINO ORIENTE

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Martedì 18 marzo 2041, alle ore 18.00 presso l’Atelier L’Universale di via Caracciolo 12 a Roma, si terrà il convegno LA VIA MEDITERRANEA: SINERGIE TRA EUROPA E VICINO ORIENTE organizzato dal Fronte Europeo per la Siria.

Nell’occasione interverranno:
ShaykH Abbas Di Palma, associazione islamica “Imam Mahdi”
Mons. Hilarion Capucci, Arcivescovo Melchita di Gerusalemme
Prof. Augusto Sinagra, direttore della Rivista della Cooperazione giuridica internazionale
Dott. Jamal Abo Abbas, Presidente della comunità siriana in Italia
Toni Capuozzo, giornalista

L’evento sarà moderato da Giovanni Feola, Fronte europeo per la Siria.

la via mediterranea

BOKO HARAM, SINONIMO DI TERRORE

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Boko Haram in lingua hausa significa “l’educazione occidentale è peccato”. Con questo nome ci si riferisce all’organizzazione terroristica che dal 2009 nel nord della Nigeria conduce attacchi terroristici e attentati contro postazioni di polizia ed esercito, luoghi di aggregazione di altre religioni e moschee. Quest’organizzazione infatti agisce in netto contrasto con la maggior parte dei musulmani nigeriani, i quali aborrano i metodi utilizzati dai terroristi, contraddicendo così la visione di molti, convinti che quello che stia accadendo in Nigeria non sia nient’altro che una lotta tra differenti confessioni religiose, tra il Nord a prevalenza musulmana e il sud a maggioranza cattolica.

Boko Haram viene creata nel 2002 dal religioso islamico Muhammed Yusuf con l’intenzione di stabilire un califfato nello stato di Borno nel nord della Nigeria. Yusuf divenne famoso per alcune sue dichiarazioni che fece durante un’intervista alla BBC nel 2009, quando sostenne che le teorie di Darwin sull’evoluzionismo, quella sulla sfericità della Terra e anche quella secondo cui la pioggia nasce dall’evaporazione dell’acqua sono contrarie all’Islam e perciò devono essere combattute. La sua idea originale prevedeva di raccogliere intorno a sé le anime più radicali dell’Islam e i musulmani scontenti della deriva del loro paese verso l’occidentalizzazione. Yusuf auspicava che la Nigeria diventasse una sorta di nuovo Afghanistan,dove la cultura e le mode occidentali sarebbero state completamente vietate.

La guida di Boko Haram morì prima che potesse vedere il suo sogno realizzato. Infatti, Yusuf fu arrestato il 28 Luglio 2009, e,in seguito a quello che pare fosse un tentativo di evasione dalla prigione dove era custodito, rimase ucciso due giorni dopo la sua cattura, durante una sparatoria con le forze di sicurezza nigeriane. Il suo corpo fu mostrato in televisione e il governo nigeriano pensò di avere tagliato definitivamente la testa agli insorti nel nord del paese.
Invece, soprattutto da quel momento, Boko Haram, che durante i suoi primi setta anni di vita aveva operato in maniera piuttosto “pacifica”, diede inizio a un’escalation di violenza della quale, ancora oggi, non si riesce a intravedere una fine. Uno degli episodi più famosi tra quelli in cui Boko Haram è stato coinvolto è senza dubbio l’attacco alla prigione di Bauchi il 7 settembre 2010. Quel giorno,circa 50 terroristi assaltarono il penitenziario dove si trovavano 759 detenuti, inclusi 150 membri dell’organizzazione terroristica in attesa di essere processati per il loro coinvolgimento nelle faide religiose nel nord dello stato africano. Durante la battaglia, furono liberati 721 prigionieri. Cinque persone rimasero uccise durante gli scontri. Questo rappresentò sicuramente un grosso smacco per il governo nigeriano, il quale,in risposta, diede avvio a una lotta senza quartiere contro questi ribelli.
Il modus operandi di questi terroristi prevede una vasta serie di azioni e tattiche, dai famosi attentati contro ufficiali della polizia e dell’esercito e politici condotti guidando motociclette, marchio di fabbrica del gruppo, fino ad a veri e propri attacchi suicidi, come quello avvenuto a Maiduguri,nello stato di Borno, il 14 gennaio 2014, dove persero la vita 31 persone.

Nonostante lo sforzo della polizia e dell’esercito nigeriano, Boko Haram sembra non aver perso le sue capacità. Il 2014 pare possa divenire l’anno più sanguinoso da quando questa guerra è iniziata, visto che solo nel mese di febbraio sono già state uccise circa 130 persone, in seguito ad attentati o a scontri a fuoco tra i governativi e i ribelli. In uno degli ultimi comunicati del gruppo terrorista risalente allo scorso mese, si legge che i prossimi obbiettivi potrebbero non più essere confinati solo nel nord della Nigeria, ma anche nel più ricco sud, dove si trovano i giacimenti petroliferi, che rappresentato le fondamenta di questo paese in forte sviluppo.
In quella che è la nazione più popolosa di tutta l’Africa, forte di un’economia che si presta a sorpassare quella dell’Africa del Sud, la prima del continente, Boko Haram sembra non trovare difficoltà a reclutare sempre nuovi adepti. Infatti, la regione settentrionale dove vive la maggioranza della comunità musulmana, è anche la più povera del paese, quella che risente meno della crescita del resto della nazione.

La povertà, l’ineguaglianza, la mancanza di prospettive e la corruzione del potere centrale rendono queste regioni un territorio estremamente fertile per l’indottrinamento e per il reclutamento di giovani uomini tra le file dell’organizzazione.
Anche il cambiamento climatico sembra giocare un ruolo importante: il prosciugamento del lago Chad ha significato la perdita del lavoro per migliaia di pescatori che per anni avevano avuto come unica fonte di sussistenza la pesca. In seguito a questa catastrofe ambientale, i pescatori, insieme alle loro famiglie, sono emigrati in altre zone della Nigeria, nella speranza di migliorare la propria situazione, non sempre però riuscendovi. Disperati e disillusi, molti di questi uomini sono andati a ingrossare i ranghi del gruppo terrorista, che prometteva loro uno stipendio con il quale mantenersi.

In molti casi, Boko Haram sfrutta internet e i social network per reclutare nuovi adepti, soprattutto tra i ragazzi più giovani, prendendo spunto da altre organizzazioni terroristiche che l’avevano già fatto in precedenza.
Proprio i legami tra il gruppo nigeriano e altri gruppi provenienti da altri paesi preoccupano le forze di sicurezza nigeriane e anche la comunità internazionale. Sebbene l’organizzazione giuri di avere legami con Al Qaeda, e paia che alcuni membri di Boko Haram abbiano combattuto in Somalia e in Sud Sudan, collegamenti ufficiali con gruppi esterni non possono essere ancora confermati.

La situazione in Nigeria riveste una grandissima importanza nello scacchiere globale, sia per il fatto che sia un’importante produttore di petrolio, sia per la sua posizione geografica.
La Nigeria , infatti, si trova a ridosso della regione saheliana e sahariana, luoghi estremamente instabili, che hanno visto, specialmente negli ultimi anni, un susseguirsi di guerre civili e rovesciamenti politici. La preoccupazione per il deteriorarsi della situazione ha portato all’intervento francese in Mali contro le basi di Aqmi e Mujao nel nord del paese e alla cooperazione tra molte nazioni occidentali e paesi dell’area in modo da prevenire il possibile peggioramento e la diffusione di gruppi come Boko Haram o Aqmi.
Sembra quindi evidente che un occhio di riguardo sia puntato verso il criterio con cui lo stato nigeriano gestisce e gestirà la situazione e molti sforzi verranno fatti per assicurare un futuro più roseo e stabile per la popolazione non solo della Nigeria, ma anche di tutta l’Africa del Nord e del Sahel.

LA “QUESTIONE TEDESCA”

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«A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale – evidenzia Nino Galloni –, i Paesi promotori dei Trattati europei (che in seguito avrebbero portato all’euro, circa mezzo secolo dopo), compresa la stessa Germania, erano consapevoli di una “questione tedesca”: un Paese che tende ad espandersi – dalla sua posizione al centro dell’Europa – verso Est, ma anche verso Ovest e Sud. Tale tendenza espansionistica – che doveva risultare contenuta dalla esperienza dell’euro, ma anche placata dall’esito della riunificazione tedesca – presenta una profonda radice culturale connessa a un modello economico capitalistico del tutto diverso da quello British-American […]. Il modello renano, con i suoi bassi tassi di interesse, tende ad allargare la base produttiva, riducendo la centralità del profitto e preferendo una logica di controllo delle risorse reali (umane, tecnologiche) che provoca una maggiore espansione, anche territoriale, delle attività produttive» (1).

Se a questo modello produttivo che associa i lavoratori alla gestione (mitbestimmung) dell’impresa – permettendo ai lavoratori tedeschi di accettare i sacrifici degli anni ’90 in vista dei vantaggi che sarebbero ricaduti in futuro, a differenza di gran parte degli altri Paesi in cui i sindacati hanno dapprima opposto le barricate a qualsiasi proposta salvo poi rinunciare incondizionatamente a tutte le conquiste sociali ottenute a caro prezzo dai lavoratori dal dopoguerra in poi – si aggiunge un sistema politico, come il Cancellierato, che è in grado di assicurare la governabilità, risultano piuttosto evidenti le ragioni che stanno alla base del successo tedesco, nonché la strategia di ampio respiro attraverso cui la Germania si è spinta verso Oriente, giungendo ad avvicinarsi a nazioni come Cina, Russia ed India. Berlino ha visto con fastidio il dissolvimento effettivo dell’asse franco-tedesco, che per decenni aveva guidato l’Europa, dovuto al cambio di paradigma avviato dalla Francia sotto la presidenza di Nicola Sarkozy, culminato nel 2010 quando Parigi aprì all’Inghilterra allo scopo di originare un “superdirettorio NATO anglo-franco-americano” (2) che relegasse la Germania al ruolo di gigante economico privo di potenzialità politiche. Nonostante la Francia abbia dimostrato ampiamente di non disporre dei requisiti fondamentali per orientare politicamente l’Europa, la Germania non ha avuto la forza necessaria per dirigere il “vecchio continente”, privandolo della possibilità di trasformarsi in vero soggetto politico indipendente.

Per questa ragione, la Germania non ha esitato a tessere trame diplomatiche alternative. Dal 2006 al 2009, gli investimenti industriali tedeschi sono aumentati in Giappone, crescendo addirittura del 132% in Russia, mentre sono diminuiti del 33% in Gran Bretagna, del 17% in Italia e del 10% in Francia. La visita di Angela Merkel a Nuova Delhi del maggio 2011 ha inoltre coronato la collaborazione con l’India, soprattutto per quanto concerne il campo dell’alta tecnologia. L’interscambio tra Germania e Cina – ove gli investimenti manifatturieri tedeschi sono cresciuti del 51% dal 2006 al 2009 – nel 2011 ha toccato i 144 miliardi di dollari ed è destinato a raddoppiare nel giro di pochi anni. Queste cifre permetteranno ai tedeschi di porsi in cima alla classifica dei Paesi esportatori verso la Cina, surclassando gli Stati Uniti, e a Berlino di stringere ulteriormente il rapporto strategico con Pechino. Nell’aprile 2012, il primo ministro cinese Wen Jibao si è recato a Wolfsburg, dove ha siglato un accordo con le autorità tedesche che ha posto le condizione per l’installazione di una nuova fabbrica della Volkswagen nella turbolenta regione dello Xinjiang. Questa intensificazione dei rapporti con la Cina costituisce la parte integrante e maggioritaria di un processo che prevede il riposizionamento dell’economia tedesca in direzione dei mercati emergenti. Secondo un rapporto redatto dall’European Council on Foreign Relations, «La Germania è portata a considerare se stessa come una forza credibile in un mondo multipolare, il che alimenta a sua volta l’ambizione di divenire “globale” con le sue forze» (3).

Ciò spiega chiaramente la solidissima alleanza strategica instaurata con la Russia. Nel novembre 2011 è stato inaugurato il gasdotto Nord Stream, il cui costo complessiva ha lambito i 9 miliardi di euro. Si tratta di un condotto lungo oltre 1.200 km costruito allo scopo di trasportare circa 55 miliardi di m3 di gas all’anno dalla città russa di Vyborg fino ai terminali tedeschi di Greifswald-Lubmin, solcando i fondali del Baltico ed attraversando le acque territoriali di Russia, Finlandia, Svezia, Danimarca e Germania.

Figura 1 (1)

Per favorire la realizzazione di questo progetto, Vladimir Putin aveva affidato (sollevando un enorme polverone) all’ex Cancelliere tedesco Gerhard Schröder la presidenza della società North Stream AG (il cui azionariato è composto dalla russa Gazprom, dalle tedesche Wintershall Holding e E. ON Ruhrgas, dalla francese GDF Suez e dall’olandese Gasunie) incaricata di occuparsi della costruzione di questo gasdotto concepito con il preciso scopo di aggirare le turbolenze politiche che minano la stabilità di Polonia e Ucraina. Vista l’instabilità politica che ha portato alla “rivoluzione arancione” del 2004 e al suo fallimento, alla caduta del presidente Viktor Yanukovich e la parallela ascesa dei movimenti russofobi radicati nelle regioni occidentali del Paese, tale gasdotto ha assunto un accresciuto valore strategico che potrebbe risultare cruciale nell’ambito dello scontro geostrategico che vede la Russia contrapporsi in maniera sempre più aspra agli Stati Uniti proprio sul “caldissimo” terreno energetico. Grazie allo sviluppo di specifiche tecnologie estrattive d’avanguardia (fracking), la compagnia statunitense Chevron ha infatti avviato i lavori di esplorazione e sfruttamento in regioni geografiche appartenenti proprio all’Ucraina occidentale, ma anche alla Romania e alla Polonia. Sempre Chevron, di concerto con ExxonMobil, ha inoltre implementato le fasi preliminari allo sfruttamento dei giacimenti “shale” off-shore del Mar Baltico. Lo sviluppo di simili giacimenti, appoggiato apertamente dall’Unione Europea dietro il pungolo statunitense, minaccia la posizione semi-monopolistica di cui gode Gazprom, grazie alla quale Mosca è in grado di esercitare una forte pressione sui centri decisionali europei. Per di più, la diversificazione delle forniture produrrebbe un calo dei prezzi, ripercuotendosi sull’economia nazionale russa basata su prezzi energetici alti e stabili tali da garantire al Cremlino la possibilità di finanziare la spesa pubblica senza adottare gli “aggiustamenti strutturali” raccomandati dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), istituzione che in seguito alla sostituzione ai vertici di Dominique Strauss-Kahn con Christine Lagarde è divenuta ancor più incline ad assecondare gli obiettivi strategici statunitensi (gli Stati Uniti ne detengono le quote maggiori, sette volte superiori a quelle della Russia). «L’amministrazione Obama – osserva Manlio Dinucci – persegue una “strategia aggressiva” che mira a ridurre le forniture russe di gas all’Europa, i cui maggiori importatori sono la Germania e l’Ucraina (l’Italia è al quinto posto). Il piano prevede che la ExxonMobil e altre compagnie statunitensi forniscano crescenti quantità di gas all’Europa, sfruttando i giacimenti mediorientali, africani e altri, compresi quelli statunitensi la cui produzione è aumentata. Già le grandi compagnie hanno presentato al Dipartimento dell’Energia 21 richieste di costruzione di impianti portuali per l’esportazione di gas liquefatto. Il piano prevede anche una forte pressione sulla Gazprom, la maggiore compagnia russa di cui lo stato ha riassunto il pacchetto di maggioranza, ma che è aperta agli investimenti stranieri: è quotata alle borse di Londra, Berlino e Parigi e, secondo la JP Morgan, oltre la metà dei suoi azionisti esteri è costituita da statunitensi» (4).

Ad ogni modo, oltre alla realizzazione del gasdotto Nord Stream e alle 6.000 imprese tedesche operanti in territorio russo (+132% dal 2006 al 2009), va evidenziato l’allestimento di una moderna linea ferroviaria capace di trasportare 400.000 tonnellate di merci dalla Cina alla Germania, grazie a un accordo raggiunto tra le ferrovie tedesche (Deutsche Bahn) e quelle russe (Rossiyskie Zheleznye Dorogi). Si tratta di un successo fondamentale, capace di garantire cruciali prospettive strategiche. Il fine ultimo dell’accordo è rappresentato dalla nascita dalla società mista Eurasia Rail Logistics, attraverso cui le ferrovie tedesche sono state chiamate ad occuparsi dell’ammodernamento delle linee russe, fornendo servizi tecnici sussidiati ad aziende come la Siemens (azienda che rappresenta il principale cavallo di battaglia della politica estera-economica tedesca) allo scopo di sostituire migliaia di km di binari vecchi ed obsoleti con nuovi percorsi ad alta velocità.

Ciò ha riguardato principalmente la Transiberiana, la cui costruzione, avviata nel 1890 ed ultimata 1916, è dovuta alla volontà del grande primo ministro russo Segej Witte, che intendeva capitalizzare l’arduo obiettivo di agevolare l’interconnessione totale dello sterminato spazio territoriale coperto dall’impero russo, nonché favorire lo sviluppo economico delle più inospitali località siberiane. Allacciando il porto russo di Vladivostok a Mosca (e successivamente a Rotterdam), la Transiberiana, con oltre 12.000 km di tragitto, è la più lunga linea ferroviaria al mondo. I problemi di manutenzione e la ridotta velocità massima avevano limitato le potenzialità di questo colossale corridoio eurasiatico, ma l’intervento della Deutsche Bahn ha rovesciato la situazione, restituendogli prestigio e funzionalità. L’ammodernamento delle strutture della Transiberiana da parte delle ferrovie tedesche ha inoltre funto da volano per la messa a punto di nuove, importantissime vie di comunicazione. La più rilevante di esse è rappresentata dal servizio di trasporto ferroviario merci Pechino-Amburgo Container Express, che nel gennaio 2008 è giunto a destinazione nell’arco di appena 15 giorni (il trasporto via mare richiede il doppio del tempo come minimo), dopo aver percorso oltre 10.000 km transitando per Mongolia, Russia, Bielorussia e Polonia. Tale percorso (transitante anche per una sezione della Transiberiana), di cui è stato inaugurato il servizio commerciale nel 2010, rappresenta un migliore collegamento ferroviario, in grado di offrire uno scartamento più ampio di quello dei treni cinesi o europei al confine tra Cina e Mongolia e lungo le frontiere che separano la Bielorussia dalla Polonia.

Figura 2 (1)

In tal modo, la Russia è riuscita ad ammodernare le proprie vie di comunicazione strategiche, ad apprendere dai tedeschi come costruire ferrovie ad alta velocità con traffico gestito da computer e di rivendere la tecnologia tedesca ai Paesi asiatici, come Iran ed India. La Germania ha invece ottenuto l’accesso diretto, attraverso l’immenso territorio russo, alla Cina. La Deutsche Bahn, attraverso questa portentosa espansione ad est, si è posta nelle condizioni di diffondere all’intera Eurasia gli standard stabiliti dall’Unione Europea contenuti nel Trans-European Transport Network (TEN), il progetto volto a favorire i traffici europei verso l’Estremo Oriente ed agevolare, sulla rotta di ritorno, il trasporto di materie prime alle industrie europee. Il TEN – che prevede stanziamenti per 400 miliardi di euro – non contempla solo la costruzione di ferrovie, ma intende agevolare la realizzazione di strade e altri “corridoi transcontinentali”.

Figura 3

La nazione tedesca persegue obiettivi di questo genere fin dalla fine del XIX Secolo, quando gli strateghi berlinesi e viennesi misero a punto il progetto relativo alla costruzione della BaghdadBahn, la grandiosa linea ferroviaria Berlino-Costantinopoli-Bagdad concepita allo scopo di facilitare la penetrazione economica e politica tedesca in Asia Minore, cuore dell’Impero Ottomano. La progettazione di questa arteria ferroviaria, che la Deutsche Bank si sarebbe sobbarcata l’onere di finanziare, esercitò una forte influenza sui precari equilibri geopolitici dell’epoca, innescando una reazione a catena di eventi che portò allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, conclusasi con la sconfitta dell’Impero Tedesco e il fallimento di quell’ambiziosissimo piano. Stringendo i propri legami con l’Oriente, la Germania si è quindi adoperata per ritagliare il proprio lebensraum (“spazio vitale”), concetto elaborato dal geopolitico Karl Ernst Haushofer prima che se ne impossessassero indebitamente i nazisti – ripristinando il drang nach osten (“spinta verso est”) attraverso questa serie di corridoi strategici che solcano la rotta ovest-est. È sufficiente un’occhiata alla mappa geografica per constatare che la “spinta verso est” rappresenta la naturale inclinazione tedesca. Essa è capace di far ricadere enormi benefici, sia politici che economici, su tutti gli Stati coinvolti poiché accelera l’ineluttabile integrazione fra la Russia ricca di materie prime e la Germania, che dispone di un poderoso comparto industriale e di un invidiabile know-how tecnologico. Questi aspetti particolari che caratterizzano Russia e Germania potrebbero portare all’apertura di un canale strategico privilegiato qualora dovesse verificarsi la temuta implosione dell’euro che, costringendo la Germania a ripristinare un marco “pesante” – a fine 2011, un studio condotto da diversi economisti della UBS aveva stimato che la Germania godrebbe, viste e considerate le condizioni economiche tedesche, di una sottovalutazione dell’euro pari al 40% – renderebbe assai arduo, per la Germania, il compito di esportare le merci nel resto dell’Europa e degli Stati Uniti (come osservato in precedenza). Oltre all’apertura definitiva di un enorme mercato di sbocco e alla penetrazione nei consigli di amministrazione delle grandi imprese minerarie russe, Berlino instaurerebbe in tal modo un rapporto privilegiato con Mosca tale da consentire alla Germania di rifornirsi di grandi quantità di materie prime (petrolio, gas, oro, ecc.) a bassissimo costo. Henry Kissinger, ben consapevole dei rischi connessi a questo genere di integrazione, affermò che «Se entrambe le potenze [Germania e Russia] si integrassero economicamente intrecciando rapporti più stretti, sorgerebbe il pericolo della loro egemonia» (5).

Un’egemonia capace di agevolare il processo di intensificazione delle connessioni trans-continentali a tal punto da provocare un vero e proprio boom per l’economia eurasiatica. Per questa ragione, gli Stati Uniti non hanno potuto esimersi dall’ostacolare questo riavvicinamento, adottando una strategia fondata sulle direttive di Zbigniew Brzezinski, secondo il quale «I tre grandi imperativi della geostrategia imperiale sono impedire la collusione, mantenere la dipendenza della sicurezza tra i vassalli, mantenere i tributari docili e protetti, e impedire ai barbari di coalizzarsi» (6). Proprio per impedire definitivamente la nascita di questo formidabile blocco economico integrato, che assicurerebbe l’egemonia russo-tedesca sull’intera Eurasia, gli Stati Uniti – approfittando della debolezza della Russia – sferrarono l’attacco alla Serbia di Slobodan Milosevic. E non è assolutamente un caso che nel 1999 i primi bersagli distrutti dai bombardieri NATO siano stati i ponti sul Danubio e sulla Sava, colpiti al fine di sbarrare la strada al traffico fluviale tedesco che, attraverso l’arteria danubiana, raggiungeva l’est europeo, l’Asia centrale e il Medio Oriente, come non è un caso che a Versailles, una volta terminata la Prima Guerra Mondiale, la Gran Bretagna e la Francia concordarono la frammentazione dell’area danubiana in piccoli Stati, la marginalizzazione della Serbia e l’allargamento della Romania (sotto influenza francese) allo scopo di porre sotto controllo il delta del grande fiume europeo. Intensificando la propria “spinta verso est”, la Germania ha dimostrato di aver riconsiderato il proprio posizionamento strategico, avvicinandosi ai nuovi fulcri economici del pianeta – Russia, Cina ed India – che hanno progressivamente trasferito l’asse della crescita mondiale dall’Atlantico all’Oceano Indiano e al Pacifico. Il che conferisce notevole credibilità al più pericoloso scenario raffigurato da Halford Mackinder, ovvero una convergenza cooperativa tra i maggiori stati eurasiatici fondata sul reciproco interesse e dettata dalla necessità di materie prime per la crescita economica.

Paradossalmente, è proprio l’aggressiva linea politica predatoria propugnata dagli Stati Uniti attraverso lo scatenamento della cosiddetta “guerra infinita” (Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Iraq II, Libia, minacce a Siria ed Iran) il principale catalizzatore di una rinnovata collaborazione tra Germania e Russia, che si è progressivamente estesa, e inducendo anche l’ondivaga Europa occidentale a prendere, seppur molto timidamente, coscienza del fatto che le opzioni a disposizione stanno cominciando a restringersi. Il fatto che gli Stati Uniti intendano fornire un ombrello strategico a operazioni di controllo geopolitico regionale da affidare ai propri alleati europei, presuppone naturalmente la fedeltà di questi alleati al vincolo atlantista. La Germania, che aderisce alla NATO ma costituisce allo stesso tempo la punta di lancia dell’Europa, propugna una linea fortemente anti-inflazionistica spingendo per il ripristino di un sistema monetario internazionale ancorato all’oro e ha monopolizzato la politica estera continentale assecondando il suddetto drang nach osten verso Mosca in chiave energetica e verso Pechino in chiave commerciale (e non solo, visto che di fronte all’esplodere di un’ipotetica, ulteriore crisi la Germania potrebbe trainare gli europei in una marcia congiunta con la Cina), ha quindi spinto gli strateghi di Washington, consapevoli che la supremazia USA è strettamente legata alla subordinazione europea, ad alzare il livello d’allerta. Per questa ragione la Germania rappresenta il principale punto critico del precario equilibrio internazionale vigente, in virtù dell’ambivalenza risultante dalle sue naturali oscillazioni geostrategiche e dalla sua predilezioni monetaristiche (favorevoli al ripristino di una forma rivisitata e corretta del vecchio Gold Standard) da un lato e dalla sua mancanza di indipendenza reale che la costringe a permanere all’interno dello schieramento occidentale imposto dagli USA (in cui i tedeschi hanno ritagliato il proprio esclusivo “recinto”, rappresentato dal resto della zona-euro), dall’altro. «La politica estera tedesca – scrive William Engdahl – esita tra i legami intrecciati con il vecchio occupante statunitense del XX Secolo da una parte e, dall’altra, i suoi interessi economici comuni con il suo partner storico, la Russia. Gerhard Schröder incarna questo dilemma. Vecchio cancelliere atlantista, è oggi padrone di un consorzio russo. Sul piano geopolitico, questa contraddizione si concentra a Lubmin (vicino a Rostock), terminale del gasdotto russo-tedesco.

Nella storia della Repubblica Federale Tedesca del dopoguerra, i cancellieri tendono a sparire quando si legano ad obiettivi politici che si discostano troppo dall’ordine del giorno, su scala mondiale, di Washington. Gerhard Schröder, dal canto suo, ha commesso due “peccati” imperdonabili. Il primo è stato la sua aperta opposizione all’invasione anglo-britannica dell’Iraq nel 2003. Il secondo, strategicamente ben più grave, il suo negoziato con la Russia di Putin teso a portare in Germania il gas naturale russo» (7).
L’avvicinamento verso poli geopolitici avversari degli Stati Uniti (verso la Cina ha cominciato ad aprire anche la disastrata Grecia) e la pericolosa inclinazione monetaristica assunta da Berlino (che non entra direttamente e apertamente in conflitto con gli USA, ma che nel lungo periodo è destinata a comportarne il crollo) sono quindi entrati in rotta di collisione con la linea politica tedesca favorevole al campo occidentale tenuta sia rispetto alla vicenda centrafricana (in cui Berlino ha inviato le proprie truppe a supporto di quelle francesi) sia, soprattutto, nei confronti della crisi ucraina (8), facendo emergere la disomogenea e incostante strategia teutonica. Proprio riguardo alla crisi ucraina, Manlio Dinucci nota che: «La strategia di Washington persegue dunque un duplice obiettivo: da un lato, mettere l’Ucraina nella mani del FMI, dominato dagli USA, e annetterla alla NATO sotto leadership statunitense; dall’altro, sfruttare la crisi ucraina, che Washington ha contribuito a provocare, per rafforzare l’influenza statunitense sugli alleati europei. A tale scopo Washington si sta accordando con Berlino per una spartizione di aree di influenza» (9). E non è certo un segreto che la pressione esercitata dalla Germania affinché Kiev si associasse all’Unione Europea (che, in barba alla profonda crisi che devasta buona parte della zona-euro, ha promesso ben 11 miliardi di euro di aiuti al nuovo esecutivo ucraino) sia essenzialmente dovuta all’esigenza di permettere alle merci tedesche di penetrare nel mercato e ucraino, e ai capitali tedeschi di orientarsi verso i distretti industriali nazionali. Gli investimenti esteri provenienti dalla Germania compenserebbero l’obsolescenza delle strutture industriali ucraine e assicurerebbero a Berlino l’accesso costante a una manodopera qualificata scarsamente retribuita, inglobando di fatto l’Ucraina nel blocco economico integrato, che rifornisce la potenza economica tedesca della componentistica dallo scarso valore aggiunto, inclusivo di tutte le aree industriali circostanti dotate di bassi salari e cambi depressi (Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) che la Germania ha costruito nel cuore dell’Europa in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e grazie al quale Berlino ha di fatto recuperato l’influenza sull’Europa centrale e orientale a livelli risalenti al 1914.

Osteggiando la “spinta verso Est” imperniata sull’alleanza russo-tedesca (che ha portato alla costruzione del Nord Stream e alla intensificazione dei rapporti bilaterali) ed appoggiando invece l’allargamento della sfera di influenza tedesca in chiave anti-russa, già manifestatosi con l’appoggio tedesco alle rivendicazioni secessioniste croate durante la crisi jugoslava di inizio anni ’90, gli USA mirano a ricreare lo scenario geostrategico concretizzatosi negli anni ’40 con la contrapposizione tra Germania e Unione Sovietica, nel tentativo di evitare la costituzione (divide et impera) di una solida e incontrastata formazione indipendente a guida tedesca suscettibile di imporsi alla testa del “vecchio continente” e consolidare i rapporti con Russia e Cina. Ciò spiega le ravvivate attenzioni statunitensi per l’Italia e l’ostracismo anti-tedesco condotto dalla Gran Bretagna, che da più di un secolo si prodiga per costituire contrappesi sufficienti a compromettere la concretizzazione del cosiddetto “sogno bismarckiano”, il quale prevede l’instaurazione di un’asse “sovranista” franco-tedesco che vegli sull’Europa. L’appoggio statunitense all’Italia e alla Gran Bretagna in chiave anti-tedesca e il sostegno alle mire egemoniche di Berlino sull’Ucraina si inquadrano quindi nella strategia attraverso cui Washington mira a mantenere la Germania in un’Europa che innanzitutto salvaguardi l’alleanza occidentale, e che successivamente si trasformi in un solido argine di contenimento all’ascesa russa (secondo i progetti USA, il Giappone dovrebbe svolgere la medesima funzione, ma in chiave anti-cinese). Assecondando la megalomania (con le operazioni militari in Libia, Costa D’Avorio, Mali) degli inquilini che si sono succeduti all’Eliseo, gli Stati Uniti sono inoltre riusciti a cooptare anche la Francia, che rappresenta una pedina fondamentale per quanto riguarda il controbilanciamento della potenza tedesca in ambito europeo. Il crescente ricorso agli alleati da parte di Washington, lungi dal rappresentare un omaggio al multilateralismo, testimonia invece in maniera alquanto chiara le crescenti difficoltà che la potenza centrale dominante sta incontrando nel realizzare l’obiettivo cruciale di «Tenere sotto controllo l’ascesa di altre potenze regionali (predominanti e antagoniste) – sostiene Brzezinski – in modo che non minaccino la supremazia mondiale degli Stati Uniti» (11).

Dal momento che la Germania rappresenta indubbiamente la più potente e controversa di tali potenze regionali, ne consegue che il futuro dell’Europa e dello stesso schieramento occidentale dipende soprattutto dalle decisioni che Berlino assumerà negli anni a venire.

Note

1) Nino Galloni, Chi ha tradito l’economia italiana? Euro, salvarsi senza svendersi, Editori Riuniti, Roma 2012.

2) Aldo Giannuli, Uscire dalla crisi è possibile, Ponte alle Grazie, Milano 2012.

3) “Corriere della Sera”, 24 aprile 2012.

4) “Il Manifesto”, 11 marzo 2014.

5) “Welt am Sontag”, 1 marzo 1992.

6) Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana, Longanesi, Milano 1998.

7) William Engdahl, The geopolitical important of Lubmin, “Réseau Voltaire”, 10 luglio 2010.

8) Anche in questo caso, l’ambiguità della Germania è stata alquanto evidente. Da un lato, la Cancelleria ha disertato la cerimonia di apertura delle Olimpiadi invernali di Sochi, partecipato al coro occidentale di rimostranze nei confronti della Russia riguardo ai cosiddetti “diritti gay” e apertamente sposato la causa degli oppositori (erroneamente qualificati come eurofili, in quanto la loro eurofilia non è altro che un riflesso della russofobia cattolica radicata nelle regioni occidentali del Paese) in perfetta intesa con gli USA, mentre il ministro degli Esteri Walter Frank Steinmeier e il suo braccio destro Gernot Erler, entrambi socialdemocratici, hanno espresso critiche sull’avventatezza nel voler inglobare l’Ucraina nell’Unione Eurpea senza consultare preliminarmente la Russia, nonché lanciato forti esortazioni nel tenere in maggior considerazione la portata delle possibili reazioni del Cremlino, poi puntualmente manifestatesi con l’intervento russo in Crimea.

9) “Il Manifesto”, 11 marzo 2014.

10) Come ha osservato Antonio De Martini: «Quando lo Stato Maggiore tedesco diede il via all’“Operazione Barbarossa” nel primo giorno d’estate del 1941, per  quasi trenta giorni avanzò distruggendo in media due divisioni di fanteria e una brigata corazzata al giorno, si aprì la via di Mosca e quella del Caucaso: aveva conquistato l’Ucraina. Mosca dista 460 km dal confine ucraino, territorio della pianura sarmatica, priva di ostacoli naturali cui  poter appoggiare una difesa efficace. L’occupazione dell’ Ucraina da parte di una potenza straniera come la NATO o gli USA, lascerebbe il fianco scoperto ai difensori del  bastione montagnoso  caucasico che è il solo ostacolo naturale di cui disponga la Russia per difendere i suoi campi petroliferi e i giacimenti Kazaki. Un assalitore che si impossessi dell’Ucraina  ed avesse la superiorità aerea, avrebbe alla sua mercé l’impero russo, potendo accerchiare l’esercito del sud,  minacciando direttamente la capitale e interrompendo le comunicazioni con San Pietroburgo e l’esercito del Nord. Questi a un dipresso sono stati i ragionamenti utilizzati dagli americani per spingere i tedeschi – eternamente innamorati dei loro errori strategici –  a molestare la Russia incoraggiando gli ucraini a dimostrazioni progressivamente violente» (Ucraina: la crisi come conseguenza di strategie superate e due pregiudizi obsoleti. La Germania fa correre un rischio di guerra all’Unione Europea, “Corriere della Collera”, 28 gennaio 2014).

11) Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana, Longanesi, Milano 1998.

LE OPPORTUNITA’ DEL MERCATO SERBO

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Si è svolto nella giornata di giovedì 6 marzo 2014 a Roma l’incontro tra il Rade Berbakov, Primo Consigliere dell’Ambasciata della Repubblica di Serbia in Roma addetto agli affari economici, Stefano Vernole, Vicedirettore di Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici, e Giuliano Bifolchi, Presidente di ASRIE – Associazione di Studio, Ricerca ed Internazionalizzazione in Eurasia ed Africa, con l’obiettivo di approfondire le tematiche legate al mercato economico interno serbo e le relative opportunità di investimento ed operatività per le imprese italiane.

La decisione di prendere in esame la Repubblica di Serbia da parte di Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici, ASRIE ed il CeSEM – Centro Studi Eurasia Mediterraneo è data dall’importanza punto di vista geografico, strategico e commerciale che riveste lo Stato serbo: al centro dei commerci dei Balcani, direttamente collegata con Bosnia-Erzegovina (Republika Srpska) e Montenegro, la Serbia può vantare inoltre un accesso diretto verso l’Unione Doganale Eurasiatica e può rappresentare una interlocutore fondamentale, grazie all’assenza di dazi doganali, con mercati importanti come quello della Federazione Russa e della Turchia. Grazie a questa rete di collegamenti ed agli accordi commerciali stretti da Belgrado, attraverso la Serbia è possibile accedere ad un mercato di 800 milioni di consumatori (CEFTA, EFTA, Ue, Unione Doganale Eurasiatica, Turchia e Stati Uniti) ed usufruire di incentivi fiscali volti a favorire gli investimenti stranieri.

A questi dati occorre poi aggiungere la stabilità politica ed economica del paese e le ottime relazioni politiche, economiche e culturali con l’Italia sancite dall’Accordo Strategico Italia/Serbia del 2009 visto, per stessa ammissione del Consigliere Rade Berbakov, come un accordo proficuo e realmente attivo per entrambe le parti in grado di favorire il reale processo di internazionalizzazione di impresa e le attività di import – export.

I rapporti con l’Italia risalgono ai tempi antichi, motivo per il quale il nostro paese può considerarsi un partner “privilegiato” della Serbia; dal punto di vista commerciale è possibile evidenziare l’importanze delle tredici Zone Franche serbe le quali offrono condizioni vantaggiose per chi vi opera al loro interno: tra i benefici é possibile citare l’assenza di dazi doganali per l’importazione dell’attrezzatura e del materiale per la costruzione dell’impianto produttivo, l’assenza di Iva e di tasse sulla proprietà e locali, il permesso di uscita temporanea della merce che necessita di ulteriore lavorazione al di fuori della zona franca, la garanzia che la proprietà di colui che usufruisce di tale zona non potrà essere nazionalizzata o espropriata e la possibilità di trasferimento di profitti o dei fondi di investimento completamente libera.
Domenica 16 marzo 2014 si svolgeranno in Serbia le prossime elezioni parlamentari utili alla formazione di un nuovo governo il quale, con l’obiettivo di continuare a favorire lo sviluppo economico del paese ed i rapporti commerciali internazionali, delineerà il programma economico nazionale e quindi anche il valore degli incentivi sul totale dell’investimento.
Per maggiori informazioni a tal proposito è possibile visionare l’intervista video a Rade Berbakov, Primo Consigliere dell’Ambasciata della Repubblica di Serbia, oppure contattare il CeSEM – Centro Studi Eurasia Mediterraneo e ASRIE – Associazione di Studio, Ricerca ed Internazionalizzazione in Eurasia ed Africa.

PERCHÉ LA RUSSIA HA RAGIONE

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La crisi ucraina va avanti e i due fronti contrapposti lasciano intendere ogni giorno di essere giunti sempre più ai ferri corti. Inarrestabili si fanno i movimenti militari verso l’Ucraina da Ovest e da Est, con le navi della marina americana che sfrecciano imponenti sulle acque del Mar Nero a cui la Russia risponde con l’invio di nuovi blindati diretti verso la Crimea e di caccia Su-27 pronti ad atterrare in Bielorussia su richiesta del presidente Lukashenko.
Tuttavia, a correre più veloce degli stati maggiori di mezzo mondo è la propaganda mediatica. Poco in tal senso sembra essere cambiato dai tempi della Guerra Fredda. All’epoca il movimentismo cattolico, quello radicale-pacifista e quello di destra trovavano un’inedita convergenza nell’opposizione all’Unione Sovietica.

La retorica democristiana è talmente famigerata da apparire grottesca al giorno d’oggi, coi suoi manifesti maccartisti e le sue deformazioni della realtà, tra bambini mangiati a colazione e cosacchi in marcia verso San Pietro. Se uno degli esponenti della Balena Bianca ritenuti più inclini al dialogo e all’apertura verso il PCI, come Aldo Moro, nel 1965 ebbe a riferire in Parlamento che la situazione in Vietnam sembrava essere «affrontata con senso di responsabilità» dagli Stati Uniti, è facile intuire l’alterazione della realtà di cui la politica del tempo era vittima.

Il partito di Emma Bonino, invece, nel 1982 chiariva in un comunicato: «Siamo anti-sovietici, denunciamo cioè il pericolo crescente della politica espansionista e militarista dell’URSS». I radicali, però, condannavano anche il pacifismo, a detta loro egemonizzato dal PCI, e denunciavano «la riaffermazione di una inaccettabile visione ‘distensionista’ delle relazioni internazionali che non tiene in nessun conto il pericolo gravissimo rappresentato dalla politica militarista dell’Unione Sovietica». Dopo il 1991 la Bonino, da nonviolenta, appoggiò le motivazioni alla base di tutti gli interventi militari degli Stati Uniti e/o della NATO in Iraq, in Serbia, in Afghanistan, nuovamente in Iraq nel 2003, recentemente in Libia e quello sfiorato in Siria, evitato all’ultimo momento grazie all’azione tempestiva della diplomazia russa che ha impedito l’esplosione ennesima, e forse definitiva, della storica polveriera mediorientale.

A seguito della Guerra dei Sei Giorni nel 1967, il Movimento Sociale Italiano aveva addirittura individuato in Israele «un baluardo dell’Occidente, contro l’espansionismo sovietico» tanto che secondo quanto riportato dall’ex direttore del “Secolo d’Italia” Franz Maria D’Asaro in un articolo celebrativo del 2002, «Almirante sin dai primi anni Cinquanta sensibilizzava il nostro interesse nei confronti dello spirito pionieristico e patriottico con il quale i fondatori dello Stato d’Israele […] avevano fondato la nuova nazione». Mentre sul fronte orientale si prodigavano per fermare l’espansionismo russo, sul fronte occidentale i missini strizzavano l’occhio all’esercito di Moshe Dayan e Ariel Sharon, portavano la loro solidarietà a Pinochet e ai colonnelli greci, appoggiavano l’intervento anglo-americano nella Guerra del Golfo e, sotto le “nuove” insegne di Alleanza Nazionale, hanno garantito per quindici anni incondizionata lealtà alla NATO in occasione di tutte le aggressioni militari di cui si è resa responsabile.

Oggi l’URSS non c’è più, eppure Mosca resta ancora la capitale di un Paese ritenuto non-cooperante, ostile se non bellicoso. Sebbene non sia mai intervenuta militarmente al di fuori dello spazio post-sovietico, dove mantiene alcune basi strategiche ereditate dal passato, la Federazione Russa continua ad essere percepita dagli occidentali come una potenza aggressiva al punto che secondo il giornalista ebreo americano George Will «l’espansionismo è nel DNA dei russi». Tante grida, però, stridono con la realtà dei numeri perché secondo l’ultimo Base Structure Report diramato nel 2013 dal Dipartimento alla Difesa americano, le forze armate statunitensi possedevano al settembre 2012 ben «557.000 installazioni (edifici, strutture complesse e strutture lineari), collocate in oltre 5.000 siti nel mondo e occupanti più di 27,7 milioni di acri», parte delle quali posizionate proprio intorno alla Russia, lungo la dorsale centro-orientale di quell’Unione Europea che oggi punta il dito e minaccia sanzioni contro Mosca, apprestandosi a firmare la propria condanna a morte economica e sociale.

È un vizio che evidentemente l’Europa si trascina dietro da almeno due secoli cioè da quando, sconfitto Napoleone a Lipsia, ha dovuto accettare – suo malgrado – l’ingresso della Russia imperiale nel lotto delle principali potenze mondiali. L’antipatia personale che il presidente russo Vladimir Putin si è guadagnato in Occidente negli ultimi dodici anni trova, con la crisi in Crimea, un’enorme valvola di sfogo che ormai coinvolge non solo esponenti ed opinionisti di destra e di centro ma anche quel “popolo di sinistra” che, attraverso il berlinguerismo, è passato dalla parossistica intransigenza marxista ai dogmi di fede del liberalismo progressista statunitense. Tra i banchi di questi intellettuali riciclati e validi per ogni stagione spiccano i nomi di Gad Lerner, di Michele Serra e di Carlo Panella che, assieme ad altri celebri colleghi, non hanno mancato anche in questa occasione di raffigurare Vladimir Putin come un despota del XXI secolo, sciorinando deliranti comparazioni tra l’odierna politica estera russa e quella del Terzo Reich.
Inutile girarci intorno. Quello di Piazza Maidan è un golpe in piena regola, dove forze di opposizione, garantite e già presenti in parlamento, hanno inscenato una situazione da stato d’emergenza, rifiutato qualsiasi accordo provvisorio proposto da Yanukovich e soffiato sul fuoco della violenza organizzata di piazza per costringere il presidente eletto nel 2010, appoggiato da una maggioranza relativa eletta nel 2012, ad abbandonare la capitale e lasciare vacante il suo ruolo. La cosa ancor più grave è che i tre partiti beneficiari del cambio di potere hanno fatto leva su una manovalanza composta da frange estremistiche di chiara matrice neo-nazista, quali Praviy Sektor e Splina Sprava, già coinvolte in attività di teppismo, sabotaggio, guerriglia e terrorismo non solo in Ucraina ma anche in Cecenia e in Georgia. Tra i vari caporioni della rivolta di Piazza Maidan, infatti, spicca il nome di Aleksandr Muzychko, ricercato in Russia per complicità col terrorismo islamista caucasico, e Dmytro Yarosh, che ha recentemente dichiarato guerra (sic!) alla Russia davanti alle telecamere dei principali mezzi di comunicazione del Paese. In generale, l’orientamento dei tre principali partiti anti-Yanukovich è fondato su un nazionalismo piuttosto artificiale che si nutre di vari contributi ideologici ereditati dal passato più remoto: l’eredità della dominazione polacco-lituana nella parte occidentale del Paese, il violento sciovinismo russofobo dell’UPA di Stepan Bandera e l’uniatismo greco-cattolico che è riuscito a penetrare persino nella comunità cristiano-ortodossa ucraina, dividendola al suo interno in gruppi contrapposti che riproducono sul terreno religioso lo scontro tra Mosca e Kiev.

I nuovi leader dell’Ucraina non hanno legittimità politica e non rappresentano in alcun modo la volontà di quello che viene spacciato per un “popolo unito”, ma che in realtà risente di una storica divisione interna dovuta ai ripetuti ampliamenti del territorio nazionale ucraino nel passato, fra cui emerge in particolare l’acquisizione della Crimea, che Kruschev “regalò” alla Repubblica Socialista Sovietica dell’Ucraina nel 1954. In realtà, chiusa la vicenda storica del Khanato locale e del protettorato ottomano, la Crimea è terra russa dal 1784, quando Caterina II ricevette dai governanti regionali il mandato di annetterne il territorio al suo Impero. La mappatura etnica della regione ne è testimone fedele: circa il 60% della popolazione è di etnia russa, il 24% di etnia ucraina (ma quasi del tutto russofono) e il 12% di etnia tatara (e religione musulmana). Non è perciò un caso il fatto che grandissima parte delle milizie attive in questa repubblica autonoma dell’Ucraina hanno deciso di passare sotto il comando delle forze armate russe, mentre il parlamento locale ha votato quasi all’unanimità (78 voti favorevoli su 81) la dichiarazione d’indipendenza dal resto dello Stato. Domenica prossima un referendum popolare dovrà decidere l’annessione di questa penisola alla Federazione Russa.

Il territorio crimeano è di fondamentale importanza sia per le materie prime che ospita nel suo sottosuolo, sia per la posizione strategica a cavallo tra il Mare d’Azov e il Mar Nero. Le principali banche e tutte le riserve di gas e petrolio sono state nazionalizzate appena due giorni fa in base ad un decreto approvato dal parlamento regionale in fretta e furia. Allo stato attuale, la Russia ha già schierato un imponente spiegamento di forze in Crimea: un numero imprecisato di uomini compreso tra le 2.000 e le 10.000 unità, che finora hanno assunto il controllo dello Stretto di Kerch e disarmato interi reparti ucraini nelle basi di Simferopoli, Yevpatorya e Balaklava; 11 elicotteri da guerra Mi-24 vicino Saki; 18 aerei da trasporto strategico Il-76 di cui 13 a Sebastopoli e 5 nei pressi di Gvardeyskaya; 4 cingolati SPW 251 nelle vicinanze di Sebastopoli; una corvetta missilistica classe Tarantul in pattugliamento nella baia di Balaklava; a questi si stanno aggiungendo decine di mezzi terrestri tra blindati, camion e furgoni da trasporto, circa 12 elicotteri da guerra tra Mi-28 e Mi-8 e, secondo le indiscrezioni, anche due batterie missilistiche anti-aeree S-400.

I partiti oggi al potere si sono segnalati più volte in passato per aver tentato di bloccare con la violenza l’introduzione del russo persino come seconda lingua dello Stato, hanno già richiesto l’adesione dell’Ucraina alla NATO e i nazionalisti di Svoboda contemplano addirittura nel loro programma l’acquisizione di armi tattiche nucleari e la delirante richiesta al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di ottenere una fantomatica licenza di attacco nucleare preventivo. È evidente che la sola presenza al potere di esponenti politici del genere è già di per sé una dichiarazione di guerra non solo alla comunità russofona ucraina, pari al 43% della popolazione nazionale, ma anche alla Russia stessa, ora chiamata a difendere la sua più corposa comunità di “connazionali fuori dai confini”, minacciati dagli assalti e dalle scorribande dei nazionalisti provenienti dalle regioni occidentali e centrali.
Per quanto riguarda il diritto internazionale, sbandierato ad intermittenza dalle potenze della NATO, va ricordato che la stessa dissoluzione dell’Unione Sovietica, sancita a Belovezha nel dicembre del 1991, è tutt’ora oggetto di controversie e dispute legali dal momento che quel vertice tra Eltsin (Russia), Kravchuk (Ucraina) e Shushkevich (Bielorussia) contravvenne al risultato del referendum popolare svolto nel marzo precedente, quando milioni di cittadini furono chiamati a scegliere tra la conservazione dell’URSS (riformata) o il suo definitivo smantellamento. L’affluenza alle urne raggiunse quota 80% mentre il “sì” al mantenimento dell’Unione vinse col 77,8%, compresa l’Ucraina dove si affermò col 71,48%. Proprio a tale questione Putin avrebbe recentemente fatto riferimento nel corso di un colloquio con l’ex presidente del Parlamento (Majlis) della comunità tatara della Crimea, Mustafa Dzhemilev. Inoltre dal 1994 un trattato internazionale impegnava l’Ucraina a garantire alle forze armate russe l’affitto della base navale di Sebastopoli sino al 2017, confermato e prolungato nel 2010 di altri venticinque anni, ovvero sino al 2042.

Quando sentiamo parlare di “invasione russa della Crimea”, siamo dunque all’inversione della realtà, alla completa manipolazione dei fatti, ad un mascheramento dei fattori in gioco tanto più necessario ai nostri leader politici quanto più velocemente il ciclo dell’egemonia occidentale si avvierà verso la sua naturale conclusione storica. Stati Uniti ed Europa mostrano unghie e denti, come leoni feriti di fronte a prede che non solo non riescono ad acciuffare ma non sono nemmeno in grado di individuare. Come disse l’ex presidente iraniano riformista Khatami nel 2006, l’Occidente ha bisogno di un nemico. In quella fase dominata dalla retorica dello “scontro tra civiltà” la dottrina Bush individuò questo nemico nell’Islam, salvo evitare di menzionare gli strettissimi legami economici e militari della Casa Bianca con gli emirati del Golfo, principali finanziatori del terrorismo internazionale. Oggi Barack Obama rispolvera invece la russofobia di strateghi come Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, dimostrandosi non certo lontano dal suo ultimo sfidante, il repubblicano Mitt Romney, che in campagna elettorale indicò la Russia come il “nemico numero uno” degli
Stati Uniti.

La pace è a portata di mano. Sta all’Occidente evitare altre provocazioni.

articolo originale: http://andreafais.wordpress.com/2014/03/14/perche-la-russia-ha-ragione/

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