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L’UMBRIA SULLA VIA DELLA SETA

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PERUGIA – Quasi trent’anni prima di Marco Polo, fu un semisconosciuto francescano di Pian del Carpine (l’odierna Magione, in provincia di Perugia) a raggiungere l’Estremo Oriente e descrivere territori, abitudini e usanze dei popoli asiatici. Sebbene poco nota ai più, difatti, la Historia Mongalorum di Fra’ Giovanni resta una delle testimonianze più preziose giunteci intatte dal Medioevo, affiancandosi ad opere senz’altro più altisonanti quali Il Milione dell’avventuriero veneziano o l’Itinerarium di Guglielmo di Rubruck.
A quasi ottocento anni di distanza dall’inizio del viaggio di Fra’ Giovanni, l’Umbria ritorna protagonista nel nuovo contesto economico globale. Lo scorso 24 marzo, la suggestiva Sala d’Onore di Palazzo Donini, sede centrale delle istituzioni regionali, ha fatto da cornice alla ratifica di un accordo quadro tra la Regione Umbria e la Fondazione Italia-Cina, presieduta da Cesare Romiti e diretta da Margherita Barberis.

Umbria 1

Nella fitta trama della cooperazione economica e commerciale tra l’Italia e la rinascente potenza asiatica, il tessuto industriale di casa nostra ha dimostrato di saper dire la sua, individuando nella Cina un florido mercato di sbocco non soltanto per quanto riguarda i classici settori di punta del cosiddetto made in Italy (agroalimentare, design e moda) ma anche in relazione ai settori tradizionalmente “egemonizzati” dalle economie del Nord Europa (tecnologia, smaltimento e approvvigionamento energetico).
Il documento stabilisce il reciproco impegno da parte dei soggetti contraenti, allo scopo di «favorire lo sviluppo di progetti condivisi che mirano alla promozione della Regione Umbria in Cina», «informare sulle opportunità del mercato cinese nei vari settori di interesse» con particolare riferimento al partenariato con la Provincia dello Shandong, al Progetto “Casa Umbria” di Shanghai nel campo del Design e alla Sicurezza Alimentare, «assistere lo sviluppo di attività con la Cina del sistema istituzionale, culturale ed economico umbro» nonché «sviluppare progetti sino-italiani anche in funzione della promozione del territorio umbro ed italiano e delle produzioni e delle eccellenze italiane». Dal canto suo, la Regione si impegna ad entrare nella Fondazione Italia-Cina in qualità di Socio Sostenitore e a farne un partner privilegiato per la promozione delle sue attività nel Paese asiatico.
Come ricordato dalla presidente della Regione Catiuscia Marini e ribadito dal vicedirettore centrale per l’internazionalizzazione presso la Farnesina Vittorio Sandalli, l’Umbria è una piccola regione capace, tuttavia, di svolgere un ruolo di eccellenza. Secondo la governatrice, con la sua PMI dinamica e volitiva ed il suo immenso patrimonio storico-culturale, l’Umbria riproduce fedelmente, sebbene in scala, il volto del nostro intero Sistema Paese.

Umbria 2

Emerge così una nuova idea di internazionalizzazione, volta a superare definitivamente gli odiosi fenomeni della fuga dei capitali all’estero e dello sfruttamento di manodopera a basso costo, per raggiungere i più equi lidi della mutua cooperazione e dello sviluppo condiviso, seguendo i binari della cosiddetta win-win strategy, parola d’ordine inamovibile nella politica estera del Partito Comunista Cinese.
Alla luce di un processo storico giocoforza connesso al crescente peso dei BRICS e alla conseguente trasformazione in senso multipolare degli equilibri politici del pianeta, sembra possibile affermare che dalla delocalizzazione dei decenni scorsi ci stiamo avvicinando ad un’inedita bi-localizzazione. Nella fattispecie, l’approdo al mercato cinese garantisce alle imprese europee una solidità finanziaria fondamentale per mantenere in vita le attività parallele rimaste presenti nei Paesi d’origine. È stato proprio Alberto Pacifici, presidente di Meccanotecnica Umbra, a raccontare questo fenomeno di “galleggiamento a distanza”, che egli stesso vive sulla sua “pelle aziendale”, forgiata da una pluridecennale esperienza imprenditoriale.
Mentre la politica nazionale vive una fase di profonda crisi e di sostanziale stasi, è dunque l’autonomia locale a fare del suo più stretto rapporto con le realtà produttive del territorio un punto di forza per rilanciare l’economia. Come sottolineato dallo stesso Sandalli, il progetto ministeriale MAE-Regioni-Cina, consolidato da diversi anni di esperienza sul campo, sta dimostrando la sua efficacia, favorendo l’aumento dell’interscambio bilaterale e l’investimento italiano in Cina.

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Dall’altra parte del tavolo la signora Gao Yuanyuan, ministro consigliere e addetto commerciale dell’Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia, ha brevemente elencato le linee d’azione della Cina nel commercio estero, ricordando le attività già avviate negli ultimi anni da alcune aziende umbre nello Shandong. Ha infine ringraziato la Fondazione Italia-Cina, strumento di intermediazione imprescindibile per tutti i soggetti, pubblici o privati, interessati a sondare le opportunità presenti nel vasto Paese asiatico. Cesare Romiti, intervenuto in veste di presidente, ha tuttavia tenuto a precisare che prima di qualsiasi rapporto economico o politico è doveroso mettere in atto una serie di meccanismi culturali finalizzati alla reciproca comprensione e alla coesistenza tra queste due differenti forme di civiltà.
È senz’altro vero che se l’Italia viene ancor oggi rispettosamente percepita dalla gran parte dei cinesi come l’erede della Roma imperiale e la culla della cultura occidentale sorta nel Mediterraneo, la Cina resta profondamente sconosciuta agli italiani, spesso condizionati da leggende metropolitane e maldicenze che, non di rado, sfociano in atteggiamenti apertamente ostili e xenofobi. C’è ancora tantissimo lavoro da fare, dunque, anche e soprattutto sul fronte della cultura, come ha evidenziato in un breve ma importante intervento il rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, Giovanni Paciullo. Eppure, con la firma di quest’accordo un passo importante è stato compiuto, gettando le basi per la costruzione di un futuro colmo di enormi potenzialità.

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“CASO MARÒ”: L’ITALIA CHIEDE AIUTO A “MAMMA AMERICA”

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Dopo tanto agitarsi e farsi vedere sicuri di sé, l’Italia, da sola, non riesce nemmeno a riportare a casa due soldati di Marina.

Alla fine chiediamo aiuto alla “mamma”, l’America. (1)

Si ha un bel dire di voler “internazionalizzare” la questione. Siamo noi stessi, col nostro comportamento in giro per il mondo, che ci attiriamo queste figurette.

Se invece di far dire sostanzialmente al ministro degli Esteri che la Russia, sulla Crimea e l’Ucraina, deve “collaborare”, si tenesse nel debito conto che c’è la maggior parte del mondo (Russia, Cina, India) che non ne vuol sapere dell’unilateralismo americano ed occidentale, certamente intratterremmo migliori rapporti anche con l’India stessa, senza alcun bisogno di “internazionalizzare” alcunché.
Invece, intestardendosi nel voler considerare come l’oracolo la sola “comunità internazionale” (gli Stati Uniti ed i loro “alleati”), si fa questa fine.

Il “caso Marò”, insomma, non si sblocca fintanto che si continua a tenere bordone all’Occidente. L’India, discreta alleata di Mosca (sin dall’era sovietica), e rifiutatasi di firmare di firmare le “sanzioni” occidentali alla Siria e all’Iran… non può non tenerne conto.

Ma l’India è anche buon acquirente di armi dall’America, così adesso speriamo di uscire dal pantano facendo esercitare qualche pressione? Anche se, a dir la verità, è più il venditore che ha bisogno dell’acquirente, il quale può sempre rivolgersi a Russia e Cina per quote maggiori del relativo capitolo di spesa.

L’America, poi, in questa storia dei soldati di Marina italiani imbarcati su naviglio civile nell’Oceano Indiano, porta una grave responsabilità, perché aleggia più che un sospetto sull’aver essa stessa aver alimentato il fenomeno della “pirateria” somala con l’obiettivo di farsi attribuire, dalla “comunità internazionale”, il ruolo di “gendarme” anche in quell’area strategicamente così importante che è l’Oceano Indiano.
Insomma, la solita manfrina: creare il problema per fornirne la “soluzione”.

Oltretutto, ci si mostra allegramente incuranti del fatto che questa situazione, che prende a pretesto un episodio se vogliamo “marginale”, mette in seria difficoltà le nostre commesse militari stipulate con Nuova Delhi, a tutto vantaggio del nostro famoso “alleato”. Ma l’Italia non deve appunto sparire come grande potenza industriale?
Così, tra il serio e il faceto – al di là delle manfrine della giustizia indiana (che però non possono essere spiegate con le imminenti elezioni) – siamo ridotti a giocare con le parole, definendo con sufficienza “processino” quello che adesso, spavaldamente, non accettiamo più, fiduciosi che la “mamma” ci aiuterà anche questa volta, così come ci ha “liberato” costantemente dal 1945 ad oggi, passando per la morte di Mattei e Moro, l’eliminazione della classe dirigente sovranista con l’operazione “Mani pulite”, fino al “processo d’integrazione europeo” in corso che sancirà l’annessione pura e semplice dell’Italia e dell’Europa nella “Comunità Euro-Atlantica”.

Siamo, a ben vedere, una Nazione di eterni bambini, che da soli “non ce la fanno”. Possiamo quindi indignarci ancora quando ci definiscono “l’Italietta”?

1) http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/politica/2014/03/26/Maro-Mistura-posizione-italiana-ferma-processo-_10287083.html

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LEVIATANO – RASSEGNA DELLA STAMPA ATLANTICA

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Da venerdì 22 marzo ad oggi, abbiamo assistito ad una recrudescenza nei toni, da parte della stampa statunitense, generalista e specializzata, che non si ricordava più dai tempi della Guerra Fredda. Se facciamo eccezione per “The Nation” (1) che ritiene necessario riprendere le fila del discorso diplomatico coi russi, data l’importanza del loro coinvolgimento nei dossiers siriani e iraniani, evidenziamo innanzitutto toni bellicosi bipartisan provenienti da chi ha gestito, sia dal fronte democratico (la Albright) sia repubblicano (Gates), le fila della politica estera americana.

La Albright sul “Washington Post” (2) esordisce dicendo che l’attuale governo ad interim dell’Ucraina è largamente rappresentativo (…), che la retorica di Putin altro non è che una fantasia avvolta da una delusione dentro un ordito di bugie (..). A suo giudizio l’incapacità di Putin consiste nel continuare a proiettare sui suoi concittadini l’ombra di un grande complotto contro il loro paese, anziché far loro comprendere i reali benefici cha hanno avuto, rispetto all’era sovietica, dal fatto che il paese si sia aperto ai flussi internazionali. E’ fuori luogo per la Albright il parallelismo che Putin cerca di instaurare fra la situazione in Crimea e quanto occorso in Kosovo nel 1991, dato che là, a suo giudizio, la NATO fu costretta ad intervenire per ragioni umanitarie e solo dopo aver avuto le necessarie autorizzazioni internazionali essendo fallite le vie diplomatiche. Bisogna ostacolare in ogni modo il piano di Putin e la sua teoria di aiuto alle minoranze russe, ciò che si ottiene garantendo i partner europei più esposti; rifiutare ogni accreditamento verso la Crimea; stabilire i criteri per cui la Russia possa essere giudicata affidabile(..). Una comunità transatlantica USA UE può essere un apporto credibile per l’Ucraina che però deve trovare in sé stessa la forza di ricostruirsi.

Gates sul “WSJ” (3) riecheggia la stessa arroganza imperiale. Dopo tutta una serie di luoghi comuni secondo cui Putin è crudele, determinato a restaurare una sfera di influenza russa su paesi che hanno faticosamente conquistato la loro libertà, dopo decenni di oppressione comunista; arriva a citare Roosevelt “Government includes the act of formulating a policy” and “persuading, leading, sacrificing, teaching always, because the greatest duty of a statesman is to educate” dove è facile capire su quali spalle ricada l’obbligo di persuadere, indicare una strada, insegnare ed educare essendo la nazione del Manifest Destiny circondata da cotali bruti. Va da sé l’auspicio a che l’UE riduca la sa dipendenza energetica dalla Russia e, ovviamente, condivida la visione americana.

Su questa linea di assoluta e totale intransigenza si pongono editorialisti quali Krauthammer dalle colonne del “Washington Post” (4) che si domanda se la politica americana, a fronte dell’impiego delle forze militari russe in Crimea, sia quella di rispondere alle baionette con le baguettes (sic!) Da qui una tirata contro l’Amministrazione USA e contro l’UE incapace di adottare sanzioni vere. Lungo lo stesso sentiero si inseriscono Jay Salomon and Carole Lee- dal WSJ (5)- che sottopongono a feroce critica la politica estera americana la quale, dopo la famosa dichiarazione di “reset” nei rapporti verso la Russia adoperata da Obama all’inizio del suo mandato, ha inanellato figuracce colossali e memorabili : In Siria, dove Assad è rimasto al suo posto e la Russia è divenuta il suo riferimento; e in Iran, paese che ha trovato nella Russia una sponda autorevole per proseguire coi suoi programmi nucleari. In Ucraina, l’umiliazione dell’apparato americano è stato ancora più cocente, dato che Putin si è negato ad una telefonata di Obama proveniente da Washington, affidando la gestione del problema a Lavrov. Per chiudere coi media generalisti, non possiamo dimenticare il durissimo commento di Mc Faul dalle colonne del NYT (6).

In primo luogo, a suo giudizio la Russia non è recuperabile all’ordine internazionale. In secondo luogo, ci sono enormi differenze rispetto all’epoca della Guerra Fredda: la Russia non ha avamposti nei singoli paesi europei come accadeva coi partiti comunisti; Putin fuori dai propri confini ha scarso seguito, e Internet costringe sempre più Mosca ad interventi per oscurare le informazioni più scomode. Proprio su questo si dovrebbe attaccare la Russia, fare in modo che i cittadini russi divengano consapevoli delle ruberie della cricca oligarchica che sottrae ricchezze al popolo, così delegittimando la classe dirigente del paese.
Come dicevamo però anche alcuni think tank, soliti a dedicarsi ai temi geopolitici e che quindi dovrebbero avere una visione più ponderata, manifestano – benché come detto non in misura così maggioritaria come vedremo –ruvidezza fino a sconfinare apertamente nella retorica.

Nell’edizione on line del 25 marzo u.s., Stratfor (7) parte dal presupposto che senza la neutralità dell’Ucraina la legittimazione di Putin, come arbitro della geopolitica internazionale, verrà seriamente compromessa agli occhi dell’area ex sovietica. L’invito è quello di abbandonare sanzioni prive di senso (meaningless). Scontato che i Russi resisteranno ai tentativi americani di destabilizzazione, gli USA non possono permettersi di abbandonare il campo perché il loro eventuale disimpegno aprirebbe uno spazio immenso alla Russia, dal Baltico all’Azerbaijan. Come può conciliarsi tale impegno con la pivotal strategy adottata da questa amministrazione in Asia e con la differente percezione della Russia da parte degli alleati europei? Bisogna aspettarsi che Putin cerchi qualunque azione che possa consolidare la sua posizione sul piano diplomatico e questo passa per il collasso dell’Ucraina. Si potrebbe dunque trovare un nuovo containment che prevede il rafforzamento del Gruppo di Visegrad unitamente ad una destabilizzazione mirata dell’Azerbaijan che contiene al suo interno un’alta percentuale di popolazione musulmana. Altrettanto importante appare il rafforzamento della Romania per controbilanciare tendenze espansionistiche nella Transnistria
Riteniamo però che il vertice assoluto in tal senso sia raggiunto da Robert Kaplan in un editoriale contenuto in The Atlantic (8) l’autore sostiene che la democrazia in sé è un regime che può reggere solo se vi sia una struttura imperiale che la sostiene: da questo punto di vista, la globalizzazione, oggi così esecrata, richiede una struttura imperiale come quella americana in grado di garantire la sicurezza delle linee marittime e dei corridoi energetici (notare la connessione). La vera domanda da porsi oggigiorno è se una politica estera di tipo imperiale sia sostenibile, e se, di rimando, sia apprezzabile l’orientamento post imperiale della presidenza Obama volta a creare blocchi imperiali nei punti strategici del Medio (Arabia Saudita, Israele) ed Estremo Oriente (Giappone). La risposta di Kaplan è che sia meglio un imperialismo temperato la cui predominanza deve essere assicurata per via economica e diplomatica, limitando l’impiego di truppe a terra solo per situazioni decisive dove gli interessi vengano pregiudicati radicalmente dal nemico.

Vi sono fortunatamente posizioni più equilibrate che meritano di essere rappresentate. La centralità del tema energetico è ripreso in un articolo di Politico (8) secondo il quale la causa della caduta dell’Impero Sovietico avrebbe una data precisa, il 13 settembre 1985, allorquando l’Arabia Saudita decise di aprire i propri rubinetti causando all’Unione Sovietica, per via del crollo del prezzo al barile del 50% fino a 10 dollari, una perdita secca di 20 miliardi di dollari l’anno. Ripetere l’operazione oggi, utilizzando una vendita allo scoperto di parte delle riserve accumulate dagli USA nel Golfo del Messico, produrrebbe un crollo di almeno 20 dollari al barile ma questa strada è difficilmente praticabile, in primo luogo perché il prezzo non può arrivare ai livelli del 1985; in secondo luogo, perché la reazione dei mercati potrebbe essere molto contraddittoria con incontrollati movimenti speculativi; infine, la Cina potrebbe acquistare a qualunque prezzo, facendo salire vertiginosamente le quotazioni per portare le sue riserve dall’attuale livello di 160 milioni a 500 milioni di barili vanificando una strategia di questo genere. Su un prezzo medio di 95 dollari al barile, un prezzo che si attestasse a poco più di 80 dollari sarebbe comunque riassorbito.

“Foreign Affairs” insiste (9) che non vi siano sanzioni adeguate per contenere nell’ex sfera sovietica la potenza russa, né che sia fattibile nei suoi confronti replicare la strategia sanzionatoria adottata contro l’Iran, soprattutto – ma è celato come understatement – per via del differente approccio strategico fra europei e americani. Una strada potrebbe essere quella di una pesante campagna informativa rivolta verso la popolazione russa per illuminarla su come e dove miliardi di dollari siano stati distratti dal paese verso altri paradisi fiscali, a vantaggio dei soli oligarchi: ciò al solo scopo di tentare una delegittimazione della classe dirigente russa.

Così, come dalla stessa rivista, proviene l’invito (10) a monitorare la Bielorussia in cui potrebbero verificarsi effetti paradossali delle scelte operate da Putin. Si era partiti, con Bielorussia, Kazakistan e Ucraina da un’Unione Euroasiatica per rafforzare il mercato e gli scambi fra i paesi coinvolti, ma adesso, dopo le vicende in Crimea, la Bielorussia comincia ad avere serie preoccupazioni. E’ vero che solo l’8% della popolazione è etnicamente russa, ma la lingua russa è quella di fatto dominante e, si sa, quando si adotta il criterio della protezione identitaria, i pretesti per un intervento si moltiplicano benché gli osservatori escludano un’invasione russa diretta. Lukashenko non vuole ripetere certo l’esperienza di Yanukovich, sapendo perfettamente che esistano i presupposti per sollevare una rivolta maidanista anche al suo interno. Il PIL bielorusso dipende per il 15% dalla Russia, ma sanzioni europee potrebbero minare quell’altro non meno importante flusso commerciale garantito dall’area baltica, con gravi ripercussioni per la stabilità interna.
Nel momento in cui si viene pubblicati, l’Amministrazione Americana sembra orientata verso la linea dura impegnandosi el ridurre la dipendenza energetica dell’Unione Europea verso la Russia: sembra però onestamente retorica, dato che una fornitura costante e regolare dall’Atlantico richiede non meno di 6-7 anni. Il primo vero test sarà rappresentato dalle elezioni europee che mostreranno come la sicura rappresentanza antieuropeista potrà minare l’orizzonte strategico di un asse più stretto USA – UE percepibile dalle opinioni pubbliche europee come la Nuova Santa Alleanza Bancaria Transatlantica, portatrice di quel credo “teoliberista” che finora ha recato ferite profondissime nella società europea.

NOTE

(1) http://www.thenation.com/article/178923/how-avert-new-cold-war-over-crimea#(1)
(2) http://www.washingtonpost.com/opinions/what-next-for-ukraine/2014/03/21/dab50db8-b131-11e3-a49e-76adc9210f19_story.html
(3) http://online.wsj.com/news/articles/SB10001424052702303725404579460183854574284
(4) http://www.washingtonpost.com/opinions/charles-krauthammer-obamas-pathetic-response-to-putin/2014/03/20/6ef35b9c-b065-11e3-95e8-39bef8e9a48b_story.html
(5) http://online.wsj.com/news/articles/SB10001424052702303563304579447300718769492?mg=reno64-wsj&url=http%3A%2F%2Fonline.wsj.com%2Farticle%2FSB10001424052702303563304579447300718769492.html
(6) http://www.nytimes.com/2014/03/24/opinion/confronting-putins-russia.html?_r=0
(7) “From Estonia to Azerbaijan: American Strategy After Ukraine” (Stratfor)
(8) http://www.theatlantic.com/magazine/archive/2014/04/in-defense-of-empire/358645/?utm_content=buffer97fc7&utm_source=twitter.com
(9) http://www.foreignaffairs.com/articles/141043/lee-s-wolosky/how-to-sanction-russia
(10) http://www.foreignaffairs.com/articles/141048/andrew-wilson/belarus-wants-out

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I PERICOLOSI EQUILIBRISMI DI ANKARA

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L’annessione della Crimea da parte della Russia rievoca la delicatissima posizione della Turchia durante la guerra fredda, dato che oggi come ieri si trova a fronteggiare situazioni complesse su più fronti.
Impegnata, nel confine meridionale, nella guerra civile siriana in cui sostiene i ribelli contro il governo di Damasco, a nord la Turchia deve affrontare la questione della Crimea e della minoranza dei Tatari che non ha ancora dimenticato il trattamento ricevuto dai russi in passato, accusati da Stalin di collaborazionismo con la Germania nazista.
La Crimea, oggi, ritorna sotto l’ala protettrice della Madre Russia dopo essere stata ceduta dall’Impero ottomano a quello russo nel 1774 nell’ambito del Trattato di Küçük Kaynarca e data in dono nel 1954 all’Ucraina da un poco sobrio Nikita Kruscev, anche se rimaneva comunque ben salda all’interno dell’orbita dell’Unione Sovietica.

Oggi il referendum e la conseguente annessione della Crimea da parte della Russia, ridimensiona le ambizioni strategiche dello Stato turco nella regione, che si proponeva di rivitalizzare il patrimonio culturale e storico del Khanato tataro di Crimea, esistito dal 1441 al 1783, il più duraturo tra quelli che succedettero l’impero del Khanato dell’Orda d’Oro. L’Agenzia per la Cooperazione ed il Coordinamento della Turchia (TIKA) ha cercato di rendere l’eredità dei tatari musulmani più visibile ripristinando, per esempio, i reperti storici di Zincirli madrasse e Haci Gray Inn e rinnovando la Kirim Tatar National School. La Turchia attraverso l’azione del ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu ha cercato di sviluppare relazioni strategiche con l’Ucraina, cercando di tessere le proprie reti in Crimea con il consenso degli ucraini[1]. Tali iniziative sono il frutto dell’ambiziosa dottrina della “profondità strategica” turca ideata da Davutoğlu, attraverso la quale mirava a consolidare l’influenza di Ankara dal Marocco all’Indonesia, facendo leva su due direttrici di carattere etnico e confessionale: quella “panturca” e quella “panislamica”[2].
Ma l’annessione della Crimea da parte della Russia pone la Turchia di fronte ad una situazione complessa ed imprevista che richiede un’attenta gestione diplomatica e politica, in un momento in cui Erdoğan sta combattendo una battaglia interna contro i suoi nemici politici che assume sempre di più i contorni di una resa dei conti. Ma la Turchia non può permettersi di trascurare la questione della Crimea seppur l’eventualità che Ankara possa influenzare il corso degli eventi appare piuttosto remota. Gli interventi di Davutoğlu in merito alla questione riflettono l’ambivalenza turca nei confronti della Russia, una superpotenza che Ankara non può permettersi di inimicarsi senza mettere a rischio la propria sicurezza strategica ed i propri interessi economici.
Se da un lato, dunque, la diplomazia turca afferma l’imprescindibilità dell’integrità territoriale della Crimea all’interno dello Stato ucraino e per questo Davutoğlu sottolinea il fatto che Ankara non accetti i risultati del referendum di Crimea, non si esime però dall’adottare una linea cauta e conciliante: “La Turchia è vicina dell’Ucraina e della Russia. Allo stesso tempo, ha un collegamento marittimo diretto con la Crimea. Pertanto è chiaro che sentiamo la situazione con maggiore preoccupazione rispetto a qualsiasi altro paese e per questo dovremo agire attraverso una diplomazia strategica”, ha affermato il ministro degli Esteri.
È per questo, dunque, che nonostante la sottolineatura della collocazione peculiare della Turchia in questa crisi, Davutoğlu ha segnalato che piuttosto di affrontare la questione bilateralmente con Mosca, Ankara dovrebbe condurre strette e continue consultazioni con i suoi partner dell’Unione europea e con suoi alleati della NATO, dimostrando che quando si parla di crisi internazionali, specie se contrappongono la Russia all’Occidente, la Turchia è pronta, oggi come ieri, a giocare la propria partita al fianco dei suoi tradizionali alleati.

Ma imbastire una strategia diplomatica che si basi su una qualche pretesa di integrità territoriale dell’Ucraina può rivelarsi un boomerang e lo sanno bene ad Ankara da quando nel 2008 Vladimir Putin dichiarò che l’allora riconoscimento unilaterale del Kosovo senza alcuna previa decisione delle Nazioni Unite, avrebbe costituito un pericoloso precedente. Allora, dopo il riconoscimento da parte degli Stati Uniti, la prima diplomazia ad aver presentato la propria richiesta di accreditamento al primo ministro del Kosovo fu il rappresentante della Turchia. È per questo che ogni argomentazione di Ankara relativa a qualsiasi forma di integrità territoriale appare inconsistente dalle parti di Mosca[3].

Alla Turchia non rimane altra possibilità che rimanere in una posizione di attesa di fronte al braccio di ferro tra Washington, Bruxelles e Mosca, cercando di lasciare il più possibile fuori dalla disputa diplomatica la partnership economica che la lega alla Russia; è anche per questo che Erdoğan ha preferito non agire unilateralmente nella vicenda.
Dati gli interessi in gioco e l’impossibilità di incidere sugli eventi, la Turchia è dunque tra i paesi che più hanno da perdere dalla crisi internazionale scaturita dall’annessione della Crimea da parte della Russia. Mustafa Abduljamil, leader del Movimento Nazionale tatari di Crimea, ha parlato di un altro potenziale pericolo che potrebbe derivare dall’annessione della Crimea: la minaccia jihadista. “Abbiamo tra noi salafiti, wahabiti e le organizzazioni che hanno combattuto in Siria – ha affermato Abduljamil – . Mi dicono che il nemico è ora sulla loro terra e che sono pronti a confrontarsi con loro. Noi non possiamo fermare coloro che vogliono morire con dignità”. La Crimea potrebbe essere oggi più appetibile da quanti vedono nella Russia il principale sostenitore del regime di Bashar al-Assad e la possibilità che la Crimea divenga il terreno di tale scontro preoccupa quei tartari che, come Abduljamil, preferiscono la resistenza non violenta

Un rappresentante tataro dell’Assemblea Nazionale della Crimea ha dichiarato: “Sì, ci sono tartari che combattono in Siria e che potrebbero tornare. Siamo preoccupati”.

Tra la Crimea e la Siria
Da una crisi internazionale all’altra, dalla Crimea alla Siria il percorso è breve e la Turchia è giusto in mezzo a due tempeste che rischiano di travolgere Erdoğan.
I rapporti tra Turchia e Siria da quando il partito AKP era salito al potere avevano intrapreso un graduale processo distensivo da cui erano scaturiti importanti accordi economici, l’abolizione delle imposte doganali e l’applicazione di incentivi bilaterali. Il volume degli scambi commerciali tra i due paesi nel 2009, anno in cui era stata stabilita la libera circolazione di cittadini tra i due paesi, ha raggiunto i 4 miliardi di dollari.

Ma quando la guerra civile ha cominciato a prendere piede in Siria, ad Ankara credevano che il vento della “primavera araba” presto avrebbe spazzato via il regime baathista di Bashar al-Assad, ma il governo turco ha sottovalutato le trame che rendono la Siria un campo di battaglia in cui si scontrano contrapposti interessi tra contrapposte potenze, come Stati Uniti e Russia. È per questo che Erdoğan non ha esitato a gettare all’aria gli sforzi ed i risultati ottenuti nel corso degli anni con il vicino siriano per fornire il proprio sostegno ai “ribelli” siriani, alleandosi di fatto con il Qatar, l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo Persico.

“La Turchia non si fida più del regime del presidente siriano Bashar al-Assad, che prosegue nella sua sanguinosa repressione delle manifestazioni di protesta. Non abbiamo più fiducia”, ha affermato il Presidente turco Abdullah Gül in occasione della “Conferenza per la liberazione nazionale della Siria”, ospitata dalla Turchia nell’estate del 2011.
In seguito a tale inversione di rotta il confine meridionale che separa la Turchia dalla Siria diviene un gigantesco campo di addestramento per una miriade di gruppi islamici provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia. Dotati di passaporto falso, combattenti armati e finanziati soprattutto da Arabia Saudita e Qatar, sono affluiti nelle province turche di Adana e Hatay al confine con la Siria, dove la CIA ha aperto dei centri di formazione militare. Ma mantenere il controllo del confine con la Siria si è rivelato impossibile. “Non si può essere sicuri che tutti coloro che provengono o sono diretti verso la Siria, attraverso la Turchia, siano tutti siriani. Molti arrivano senza documenti, e nessuno sa chi sono veramente – ha riferito in un’intervista per Al-Monitor, Cihat Açikalin, un avvocato penalista della provincia di Hatay -. Il governo ha aumentato il numero di pattuglie alla frontiera, ma una volta che le regole sono state infrante, non è più possibile per loro riparare completamente. L’iniziale allentamento dei controlli alla frontiera ha incoraggiato molti ad intraprendere il business del contrabbando. Il conflitto siriano ha creato una vera e propria classe imprenditoriale che non vuole che lo Stato adesso incrementi i controlli al confine. Resistono”, ha affermato Açikalin.

I turchi, specie chi vive al confine con la Siria, cominciano a manifestare apertamente la loro preoccupazione per l’evolversi della situazione e per il sostegno della Turchia all’Esercito siriano libero di Jaysh al-Islam, meglio conosciuto come Fronte Islamico, la nuova coalizione che si è formata nel mese di novembre e che si compone di una varietà di gruppi islamici.

La tensione tra Turchia e Siria ha infiammato un dibattito interno in Turchia, già acceso, specialmente in seguito alla vicenda del caccia RF-4E Phantom turco abbattuto dalla contraerea dopo aver violato lo spazio aereo siriano, nel 2012.
In quell’occasione 129 deputati hanno espresso la propria contrarietà alla guerra, mentre migliaia di dimostranti sono scesi in piazza inneggiando allo slogan “No all’intervento imperialista in Siria”. Da allora Erdoğan è stato investito da un effetto domino che ha visto acuire l’irrisolta “questione curda” ed il malumore sotterraneo tra le forze armate e parte della magistratura. Così come è avvenuto per le componenti più nazionaliste, “laiche” e conservatrici della società , che – come le forze armate e parte della magistratura – rifiutano di accettare ogni provvedimento di apparente islamizzazione, in ambito economico oltreché politico, come la scelta di Erdoğan di potenziare il sistema bancario di impronta islamica concedendo nuove licenze e aprendo alla finanza islamica anche le banche a partecipazione statale. La rottura delle relazioni con la Siria e l’isolamento regionale scaturito dalla recente politica aggressiva di Erdoğan, ha poi ampiamente contribuito al forte rallentamento della crescita economica della Turchia che è passata dal 9 al 2,2%. Tale crescita, per di più, è caratterizzata da privatizzazioni e da una febbre edilizia che ha coperto di cemento anche le aree boschive del Bosforo e delle regioni più interne[4].

Ma ai nemici interni di Erdoğan, si aggiungono anche gli alleati tradizionali della Turchia, infatti la sistemazione dei missili NATO a Malatya e la posizione sulla Siria, non hanno garantito al primo ministro turco il sostegno dell’Occidente, che vede nell’opposizione kemalista del CHP e di Fetullah Gülen, il ruolo di interlocutore negli ambienti atlantisti, un alleato ideale per esautorare quell’Islam politico, il c.d. “islamismo legittimo” che in Turchia ha cercato di apportare un cambiamento sociale non gradito[6].

Le elezioni amministrative del 30 marzo in Turchia, saranno un banco di prova molto importante ed Erdoğan lo sa bene, dato che ha avviato una campagna mediatica di stampo nazionalista volta ad accusare chi cerca di estrometterlo dal potere, di tramare contro la Nazione. Nell’ordine di queste idee potrebbe rientrare l’abbattimento di un MiG-23 siriano da parte di un F-16 turco, avvenuto il 24 marzo, che secondo lo stato maggiore turco aveva violato lo spazio aereo di quest’ultimo di un quarto di miglio, salvo poi precipitare in territorio siriano. La decisione di abbattere l’aereo siriano ha tutte le caratteristiche di una scelta politica a ridosso delle elezioni del 30 marzo, dopo che lo scandalo corruzione e le intercettazioni pubblicate hanno investito il governo ed Erdoğan in risposta ha deciso di rendere inaccessibile la piattaforma social “Twitter”: “Un altro assassino ha violato il nostro spazio aereo, poi cos’è successo? – ha chiosato Erdoğan in un comizio elettorale il 24 marzo – La nostra forza aerea l’ha abbattuto”[5]. Ma Erdoğan non sembra rendersi conto che dare un’accezione politica ad un’operazione militare di propaganda, rischia di oscurare persino il più visibile successo degli 11 anni di governo dell’AKP, quello di aver ridimensionato l’influenza dei militari sulla politica.
L’estremo tentativo di recuperare i consensi dei nazionalisti e dei conservatori sunniti nell’intento di allontanare un epilogo che sembra già scritto.

* Roberto Asaro è laureando nel corso di Studi Internazionali della Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”, dell’’Università degli Studi di Firenze; osservatore delle dinamiche interne dei Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum ed alle reciproche relazioni.

NOTE
[1] Fehim Taştekin, “Turchia also a loser in Crimea”; “Al-Monitor”; 18 marzo 2014.
[2] Giacomo Gabellini, “Il vicolo cieco di Erdogan”. “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”; 19 giugno 2013.
[3] Semih Idiz, “Turkey faces ‘geography’s revenge’ in Crimea”. “Al-Monitor”; 21 marzo 2014.
[4] Giacomo Gabellini, “Il vicolo cieco di Erdogan”. “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”; 19 giugno 2013.
[5] Fehim Taştekin, “Turkey shoots down Syrian plane as elections heat up”; “Al-Monitor”; 23 marzo 2014.
[6] Aldo Braccio, “I dubbi della Turchia e gli interrogativi delle elezioni di marzo”; “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”; 21 febbraio 2014.

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WASHINGTON COGLIE LA PALLA AL BALZO

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Puntuale, ora che la questione ucraina pare non possa risolversi in tempi brevi e con gli Stati Uniti che si agitano per imporre alla disubbidiente Russia sanzioni più dure possibili, si riaffaccia il problema dell’approvvigionamento energetico e delle implicazioni politiche e commerciali che ne conseguono. Se la decisione di sospendere Mosca dal G8 – per quanto sbandierata come dura rappresaglia e segnale di unità da parte dei paesi più importanti al mondo – non è certo stato un grande schiaffo alla Russia, altro discorso meritano le sanzioni che potrebbero colpirla a livello economico e soprattutto a livello energetico, qualora anche alcuni Paesi europei optassero per la sciagurata opzione, già proposta da Washington, di porre una sorta di embargo nei confronti del Cremlino per dare un taglio alla dipendenza energetica da Mosca e soprattutto all’interdipendenza politico-economica fra la Russia e l’Unione Europea, avvantaggiando così, ça va sans dire, gli Stati Uniti.
A monte di tutto vi è il grande fastidio destato in America nel vedere come i rapporti cordiali instauratisi in seguito al crollo dell’URSS fra Russia ed Europa, siano sfociati col passare degli anni in proficui legami politico-economici che hanno reso imprescindibile l’interscambio fra di esse. Germania e Italia la fanno da padrone, ma tutti gli europei sono interessati alla Russia, perché è un mercato enorme e in crescita; smanioso, sotto il governo di Putin, di seguire le orme di Pietro il Grande quando nel ‘700 importò il fior fiore dell’Occidente per ammodernare il Paese in ogni campo. Tutto questo non è gradito a Washington, che sembra voglia prendere la palla al balzo della crisi ucraina per screditare Mosca e guastare i rapporti affaristici Russia-UE, dando vita al TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Un’idea recente ma di antica memoria (figlia della Trilateral Commission e del Bilderberg) che realizzerebbe il coronamento delle ambizioni americane, legando definitivamente a sé l’Europa e dando vita ad un mercato aperto che diventerebbe senza dubbio il più importante del mondo, ma che priverebbe gli Stati nazionali di controlli efficaci sulla legittimità di accordi economici e della prerogativa nelle controversie giudiziarie, per affidarsi ad anonimi e non eletti organi di sorveglianza. Se l’Unione Europea ci infastidiva per l’illegittimità di alcune sue intromissioni, qui cascheremmo dalla padella alla brace.
Nella speranza che simili piani rimangano nel cassetto, è principalmente in campo energetico che devono sorgere i primi dubbi per gli europei sulle proposte di sanzioni contro la Russia, dovendo considerare diversi elementi. 1) Ancora qualche mese fa, fu l’ad di ENI Paolo Scaroni a rilasciare un’intervista – il cui tratto saliente era “o abbracciamo lo shale gas, o abbracciamo la Russia” – che fece il giro del mondo e che esemplificò perfettamente la realtà europea: a fronte degli spaventosi costi energetici che l’Europa è costretta a pagare rispetto agli Stati Uniti, urge trovare il più in fretta possibile un rimedio per riallineare i prezzi al fine di dare competitività alle imprese del Vecchio Continente e per frenare la fuga di grandi realtà industriali oltreoceano in virtù della differenza di prezzi. Il gas oggi infatti costa in Europa il triplo rispetto agli Stati Uniti e l’energia elettrica il doppio, ben si capisce allora quale possa essere il risultato, sul lungo andare, di una tendenza simile. L’America si è già detta pronta, forte dell’essersi recentemente scoperta piena di shale gas, a vendercelo lei; dimenticando però che ad oggi non esistono infrastrutture atte al trasporto di questo elemento attraverso l’Atlantico e che soprattutto, anche esistessero, comporterebbero un aumento del prezzo in maniera esponenziale, annullando ogni beneficio dato dal minor costo all’origine e provocando solo enormi flussi di denari nelle casse statunitensi. 2) Ironia della sorte vuole che ad essere maggiormente dipendenti dalle importazioni di combustibili russi (dal 69% sul totale importato dall’Estonia al 92% della Lituania, passando per il 91% della Polonia) siano proprio i Paesi più virulenti nel dar contro a Mosca e che spingono per un’azione più incisiva della Nato, fingendo evidentemente di non ricordare come per essi – ancor più che per i paesi dell’Europa occidentale che (quasi) potrebbero fare a meno delle forniture di Gazprom, date le diversificazioni esistenti – sarebbe impossibile al momento approvvigionarsi altrimenti. 3) Lo shale gas di cui tanto si parla è una strada al momento (e per anni a venire) impraticabile in Europa, per diversi motivi: si tratta di un sistema costoso e che implica un grande consumo d’acqua; la legislazione vigente in Europa non invoglia i privati a permettere lo sfruttamento del terreno poiché non ne ricaverebbe nulla – a differenza di quanto accade in America – salvo l’inquinamento paesaggistico e ambientale derivante dalle perforazioni; emblematico il caso dell’Inghilterra dove le proteste hanno spinto il governo a fare marcia indietro. Quei paesi che c’hanno provato, Polonia e Ucraina ad esempio, sono ben lontani dal produrre volumi sufficienti a coprire il loro fabbisogno, figuriamoci quello di altri paesi.
Dove però la partita si fa ancor più inquietante, è sotto il profilo politico. Oltre al discorso relativo allo spettro del TTIP , vi sono anche in questo caso delle considerazioni da fare. 1) In primis, appellandoci al buon senso, ci rendiamo conto che porre sanzioni a paesi strategicamente fondamentali per l’economia e l’assetto geopolitico dell’Europa è una scelta che, casomai, dev’essere presa da chi in quell’area ci vive e non da chi sta dall’altra parte del mondo e che esprime giudizi affrettati e funzionali esclusivamente ai suoi interessi? E a livello italiano, capiamo che all’indomani degli schiaffi ricevuti dalle sanzioni all’Iran e dalla guerra in Libia, così facendo dovremmo abbandonare – per un capriccio – il nostro storico e maggior fornitore, e con esso i proficui affari in ballo, subendo un’altra umiliazione? 2) C’è una sinistra simultaneità d’eventi anche nel caso della presa del potere da parte di Renzi, uomo tenuto in palmo di mano da parte di Washington e noto agli ambienti liberal americani da ben prima che diventasse il fenomeno mediatico che è oggi. L’arrivo dell’ex sindaco di Firenze e l’imminente cambio dei vertici di numerosi enti statali, hanno riproposto la questione ENI e quindi la nomina di Scaroni ad un quarto mandato. La prima azienda italiana, che sotto la guida del top manager vicentino ha raggiunto risultati straordinari, non è una novità che risulti antipatica ai grandi gruppi petroliferi occidentali. I quali già in occasione dell’ultima elezione del presidente del CdA, erano riusciti a convogliare la scelta su Recchi, persona gradita oltreoceano e non pervasa da quel fastidioso “spirito libero” che ha caratterizzato la gestione Scaroni – abile nel continuare a tessere importanti accordi energetici con paesi talvolta sgraditi, con buona pace del servilismo della nostra politica estera e seguendo la migliore tradizione italiana, di Matteiana memoria. Il rischio è che quindi Renzi – dopo aver ventilato la possibilità di annullare il piano statale di vendita e riacquisto (buy-back) di quote ENI che avrebbe portato la Cassa Depositi e Prestiti (controllata dal Tesoro) a controllarne circa il 35%, volendo portare invece lo Stato sotto la delicata soglia del 30% tramite una normale privatizzazione – possa ora spingere per un allontanamento di Scaroni a vantaggio di una persona più conciliante rispetto ai voleri atlantici. Dovendo sperare, in questo caso, che i buoni uffici di Berlusconi – colui che aveva fortemente voluto il top manager a capo dell’ENI e che con Renzi ha stipulato un accordo politico – sortiscano i loro effetti e non ci portino a sciupare un patrimonio nazionale come è il nostro ente energetico. 3) L’interscambio commerciale Italia-Russia ha superato nel 2013 i cinquanta miliardi di euro, con un valore del nostro export che si attesta intorno ai quindici miliardi. Tutte le maggiori imprese italiane esportano nel paese eurasiatico; nel novembre 2013 era stato addirittura stilato un preliminare d’accordo che avrebbe portato, nel corso del 2014, ad abbattere gran parte degli ostacoli attualmente esistenti nei rapporti commerciali fra Roma e Mosca. Si tratta di un’operazione che è un gioiello, un capolavoro della nostra diplomazia e della nostra capacità imprenditoriale. Ci rendiamo conto a che cosa rinunceremmo qualora, Dio non voglia, dovessimo allinearci ai dettami degli Stati Uniti?
Non dovrebbe neanche esserci bisogno, a rigor di logica, di dire perché l’idea di penalizzare un paese come la Russia a causa della questione della Crimea sia un’idea ingiusta e folle; i motivi si sprecherebbero e per fortuna pare che in molti se ne stiano accorgendo. Serve invece dire come, all’interno della conclamata importanza economica e politica della Russia per il futuro dell’Unione Europea, la sfida principale – ovvero quella sui prezzi dell’energia – passi, come Scaroni sostiene fra le righe, attraverso un ulteriore legame con Mosca che ci permetta di ridurre nel tempo il differenziale di costi, come del resto sembrano prospettare gli scenari sul breve termine. Nella speranza che l’Europa, o almeno l’Italia, aprano gli occhi e riflettano sull’opportunità di imbarcarsi nuovamente in nefaste avventure propinateci dal nostro grande “protettore” d’oltreoceano. Con l’Italia, particolarmente, che dovrebbe ricordarsi di ciò che è stata sotto molti aspetti per l’intero dopoguerra: un paese “con la moglie americana e l’amante araba”, a testimonianza della nostra abilità, nonostante tutto, a gestire molteplici alleanze a seconda degli interessi strategici; talvolta anche a dispetto del volere dei nostri più stretti “alleati”. Visto che per il momento un divorzio dalla moglie appare purtroppo remoto, cerchiamo almeno di non giocarci l’amante. Russa, questa volta.

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ALEKSANDR DUGHIN: TEORIA LUMII MULTIPOLARE (7)

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CAPITOLUL 2.

BAZELE TEORETICE ALE LUMII MULTIPOLARE

Continuare din numărul precedent.

Relevanţa normativismului pentru Teoria Lumii Multipolare (TLM)

Normativismul în RI este foarte potrivit pentru o analiză „consistentă” a civilizaţiilor şi a structurii relaţiilor dintre ele. Această abordare plasează în centrul atenţiei cercetarea normelor, valorilor, ideilor şi idealurilor unor societăţi concrete, ceea ce contribuie la înţelegerea faptului cum sunt conştientizate temele de bază ale Relaţiilor Internaţionale (RI) în ţări şi contexte sociale diferite. Abordarea normativistă presupune faptul că imaginile politicii mondiale sunt înţelese şi interpretate de către fiecare societate în conformitate cu postulatele (normele) sale culturale. Aceste norme influenţează asupra conducerii politice şi asupra altor centre care iau decizii în chestiuni de politică externă, deoarece acestea nu sunt niciodată rupte de mediul social, ci sunt legate de acesta şi depind de el din raţiuni de politică internă (problema legitimităţii). Chiar dacă indivizi aparte sau totalitatea lor nu posedă competenţă în chestiuni de politică internaţională şi de relaţii externe, suma reprezentărilor acestora pot să influenţeze legitimarea conducătorului. Astfel, politica externă este plasată într-un context sociocultural concret, în cadrul căruia simbolurile, preferinţele, principiile şi complexele etnice au un rol important.

Studiind în mod prioritar imaginile din domeniul relaţiilor internaţionale (de exemplu, chipul celuilalt) şi rezonanţa acestora într-o societate concretă, normativiştii ne apropie nemijlocit de întocmirea hărţii civilizaţionale, unde societăţi diferite proiectează complexe diferite ale criteriilor morale, ale aprecierilor etice, ale imperativelor şi regulilor asupra mediului internaţional. Cum se conjugă această situaţie cu politica reală în fiecare caz aparte este nevoie să se cerceteze în mod separat. Însă având o astfel de abordare, întreaga zonă a relaţiilor internaţionale devine nu un spaţiu de utilizare a tehnologiilor de forţă sau economice ori a iniţiativelor instituţionale globaliste, ci un câmp al simbolurilor şi semnelor, pe care le interpretează în mod diferit societăţi şi culturi diferite, în conformitate cu propriul set de valori.

În felul acesta, pentru TLM se deschide un teren vast pentru analiza simbolică a relaţiilor internaţionale în baza unor ansambluri civilizaţionale concrete, fiecare dintre acestea fiind descris prin intermediul unui tablou original de norme şi idealuri.

Relevanţa teoriei constructiviste pentru TLM

Importanţa constructivismului pentru TLM a fost menţionată deja ceva mai devreme. Însă contează cel mai mult aici importanţa acordată construcţiilor teoretice, care uneori au un rol hotărâtor în realizarea unui sau altui proiect. Reprezentările despre lume afectează lumea, şi chiar dacă nu o fac să fie aşa cum este imaginată, cel puţin îi conferă anumite trăsături de ordin calitativ. Prin urmare, sistemul relaţiilor internaţionale reprezintă într-o măsură considerabilă un rezultat al construirii pe parcursul desfăşurării câmpului teoretic al RI ca disciplină.

Înşişi constructiviştii, şi, în primul rând, A. Wendt, preferă să utilizeze această metodă într-o cheie umanistă şi neoliberală, scoţând în evidenţă faptul cât de mult depinde în RI de formulări ce impun autolimitări sau de conflicte programate de nişte principii prealabile. Wendt consideră că anarhia relaţiilor internaţionale poate fi înţeleasă în mod diferit: în spiritul lui Hobbes (rivalitate, pregătire de război), al lui Locke (concurenţă, coexistenţă paşnică), al lui Kant (solidaritate, parteneriat, unire într-o societate civilă comună). Potrivit lui Wendt, din punct de vedere ontologic este vorbea despre aceeaşi anarhie, însă aprecierea ei gnoseologică permite să fie construită în temeiul ei fie un câmp al conflictului, fie o zonă a concurenţei, fie un spaţiu al unei cooperări strânse şi solidare. În funcţie de felul cum vom configura înţelegerea realităţii în relaţiile internaţionale, anume astfel, în definitiv, va şi apărea aceasta. Constructiviştii consideră că trăim în acea lume pe care o creăm noi înşişi. Nicholas Onuf formulează această idee în lucrarea sa programatică „Lumea pe care am creat-o noi înşine” („World of Our Making”1). Civilizaţiile nonoccidentale vor prefera în mod logic „să creeze lumea” în concordanţă cu propriile principii şi idealuri, cu tradiţiile şi patternurile lor culturale. Lumea occidentală, care pretinde să fie singurul şi universalul model al lumii, este creată de oamenii Occidentului. Tot ei s-au învăţat să-l deconstruiască şi să-l construiască din nou. Această practică este extrem de importantă pentru TLM. Însă ea trebuie aplicată în cu totul alt context şi pentru rezolvarea altor sarcini. Conştientizând faptul că prin normele ce pretind la o evidenţă absolută şi la universalism (progres tehnic, democraţie, drepturile omului, toleranţă, umanism, economie de piaţă, presă liberă etc.) avem de a face cu proiecţia doar a uneia dintre civilizaţii, vom fi în stare să localizăm cu uşurinţă discursul occidental, să-l supunem deconstrucţiei, eliberând astfel câmpul semantic pentru construirea unei alte realităţi. Lumea creată de către noi poate şi trebuie să fie doar una multipolară. Iar pentru ca ea să devină anume aşa, rămâne doar să o construim.

Trebuie să începem de la teorie. Asta deoarece anume în spaţiul reprezentărilor şi a conceptelor se află rădăcina a ceea ce ulterior este perceput de către noi ca realitate, ca dat şi statu-quo.

Un exemplu de analiză a lumii multipolare în comparaţie cu sistemul internaţional postmodernist

Să aducem un exemplu cum ar putea fi aplicată metoda propusă de către teoreticienii „sistemelor internaţionale” în raport cu multipolaritatea.

Analiza sistemelor internaţionale pe care o propunem se reduce la scoaterea în evidenţă a următoarelor niveluri2:

• sistemul,
• subsistemul,
• unitatea,
• subunitatea,
• individul,
precum şi la examinarea relaţiilor dintre ele în domeniile:

– militar,
– politic,
– economic,
– social,
– ambiental.
În plus, în cadrul sistemului internaţional se evidenţiază:

• interacţiunea (poate fi lineară sau să se desfăşoare pe mai multe coordinate; asta determină nivelul intensităţii interacţiunii; se reduce, potrivit caracteristicilor, la cinci tipuri: războaie, alianţe, schimburi, împrumuturi, dominaţie);

• structura (organizarea statică a unităţii în cadrul sistemului);

• procesul (transformarea tuturor relaţiilor la scară calitativă).

Potrivit lui Buzan/Little, sistemul internaţional postmodernist se caracterizează prin următoarele particularităţi:

– lărgirea nomenclatorului unităţilor de bază (în comparaţie cu sistemul global, în care acţionau cu precădere statele);

– apariţia unor actori nonstatali, inclusiv o unitate nouă, nomadul pe asfalt (E. Junger, J. Attali), un cosmopolit absolut indiferent faţă de sistemul ierarhiilor teritorializate;

– o şi mai mare intensitate a relaţiilor;

– apariţia unor noi spaţii suprastatale: informaţional, comercial, cultural, de reţea, de distribuţie, de stil;

– interacţiunea globală ca dispersie (dispersia unităţilor militar-politice de bază înspre unităţile comercial-economice);

– apariţia unor noi localizări (regionalism).

Acest tablou al sistemului postmodernist internaţional, descris de Buzan/Little, corespunde în mare viziunii globaliste şi conceptelor transnaţionalismului şi neoliberalismului.

Să descriem acum, urmând aceeaşi metodologie, modelul multipolar.

Drept unitate de bază apare civilizaţia (pol al lumii multipolare).

Această unitate face parte din sistemul planetar, bazat pe interacţiunea dintre civilizaţii. În raport cu alte civilizaţii, se constituie un subsistem (de fiecare dată diferit), în funcţie de faptul care civilizaţie anume examinăm. Aici pot exista situaţii asimetrice.

La nivelul subunităţilor, găsim un spectru întreg de concepte, nomenclatorul acestora putând fi divers şi asimetric, parţial ierarhic, parţial la acelaşi nivel.

În cadrul sistemului postmodernist există o coincidenţă cu multipolaritatea în această chestiune: în ambele cazuri se înregistrează creşterea importanţei factorilor locali şi noul regionalism.

Astfel, printre subunităţi putem scoate în evidenţă o comunitate socioculturală dominantă şi comunităţi minoritare. Aceste comunităţi minoritate ar putea corespunde comunităţilor dominante în cadrul altor civilizaţii, însă ar putea fi şi singulare.

Respectivele comunităţi sunt capabile să se structureze potrivit unor particularităţi de ordin cultural, religios, etnic, teritorial sau de alt gen, formând o superpoziţie a identităţilor. Fiecare dintre aceste identităţi poate fi identică sau diferită în raport cu comunitatea dominantă, să aibă sau nu analogii în cadrul altor civilizaţii. În funcţie de asta se vor constitui şi relaţiile intercivilizaţionale.

Apariţia unor noi comunităţi sau renaşterea celor anterioare (religioase, etnice, socioculturale etc.) constituie un semn al lumii multipolare.

Relaţiile dintre civilizaţii se vor constitui neuniform, în funcţie de faptul ce subunitate examinăm. Legăturile cu anumite grupuri religioase sau socioculturale se pot dezvolta destul de intens. Iar între grupurile dominante ale civilizaţiilor, dimpotrivă, legăturile şi schimburile se vor efectua cel mai probabil în domenii destul de limitate şi prin intermediul unor instanţe mandatate în mod special pentru aceste scopuri.

În locul sporirii rolului actorului individual pentru nomadul pe asfalt, multipolaritatea, dimpotrivă, propune minimalizarea identităţii individuale în favoarea unei alegeri largi a identificărilor colective asimetrice şi a setului de statute sociale.

Tehnica în calitatea ei de fenomen ce pretinde la universalism şi neutralitate culturală va fi reîntoarsă în contextul său istorico-cultural iniţial şi conştientizată ca gadget specific a doar uneia dintre civilizaţii, ce exprimă pretenţiile ei hegemonice şi impulsul etnocentric.

Comparând modelele sistemului postmodernist, propuse de adepţii sociologiei istoriei în RI, cu modelul lumii multipolare, observăm o deosebire fundamentală în felul cum e văzută imaginea viitorului. În primul caz (cel al postmoderniştilor obişnuiţi) avem de a face cu transpunerea codului contemporan occidental la nivelul individual din ce în ce mai pulverizat. În cel de-al doilea caz, omenirea se recombină şi se regrupează în baza holismului – a identităţii colective, a interacţiunii dintre diverse grupuri şi procese, ce reflectă schimbarea permanentă a calităţii acestor interacţiuni, vor prezenta un tablou dinamic, care nu se va reduce nici la sistemul internaţional clasic, nici la cel global, nici la cea descrisă de exponenţii sociologiei istorice în RI şi numită „postmodernistă” (în versiunea ei neoliberală şi transnaţională).

În acest caz, în TLM schimbarea calităţii semantice a naturii unităţii în raport cu sistemul global în cadrul căruia drept unitate de bază apărea statul naţional, poate fi asemuită acelei deosebiri care există între o particulă elementară din fizica clasică şi un fractal (B. Mandelbrot) sau o buclă (din fizica supercorzilor lui E. Witten). Civilizaţia reprezintă o realitate complexă cu o geometrie extrem de complexă şi de fiece dată unică şi cu un sistem de staniu de atractanţi. Tocmai de aceea şi sistemul relaţiilor intercivilizaţionale, cum ar fi războaiele, alianţele, schimburile, împrumuturile şi dominaţia, capătă un caracter complex3. Războiul intercivilizaţional va reprezenta ceva cu totul diferit decât războaiele dintre state, atât ca esenţă, cât şi ca formă. Vor fi la fel de diferite și alianţele dintre civilizaţii sau natura tratatelor de pace. Caracterul schimburilor, inclusiv ale celor economice, va fi determinat de nivelul la care vor fi efectuate aceste operaţiuni. În cadrul civilizaţiei poate fi vorba de instanţe şi grupuri foarte diferite. Asta spre deosebire de concepţia stato-centrică din paradigmele clasice ale RI sau a indivizilor atomizaţi/multitudinilor din neoliberalism sau neomarxism.

Şi, în sfârşit, dominaţia unei civilizaţii asupra alteia poate avea, de asemenea, un caracter ambivalent: superioritatea materială nu neapărat va presupune şi superioritatea cognitivă şi hegemonia gnoseologică. Şi, dimpotrivă, în anumite cazuri dominaţia spirituală ar putea fi însoţită de o întârziere în domeniul dezvoltării sferei materiale. Lumea multipolară lasă loc pentru toate posibilităţile.

De aici se impune o concluzie extrem de importantă: lumea multipolară este spaţiul unei istorii larg deschise, în care participarea activă a societăţilor la crearea unei noi umanităţi, a unei noi hărţi a realităţii nu va fi restricţionată de niciun fel de limite impuse din exterior, de nicio hegemonie, de niciun fel de reducţionism sau universalism, de niciun fel de reguli prestabilite sau impuse din afară. O astfel de realitate multipolară va fi una mult mai complexă şi multidimensională decât orice intuiţie de tip postmodernist.

Lumea multipolară constituie un spaţiu al libertăţii istorice nelimitate, libertate a popoarelor şi comunităţilor de a-şi făuri propria istorie.

Să examinăm acum câteva aspecte concrete ale TLM, pornind de la temele clasice examinate în cadrul RI.

În RI cea mai importantă chestiune ţine de identificarea instanţei, care este purtătoarea puterii supreme, ce determină structura comportamentului actorului în mediul relaţiilor internaţionale. Denumirea funcţională a acestei instanţe este cea de „purtător al suveranităţii” sau de „principe” (după terminologia lui Machiavelli).

Aşa cum am arătat, drept unitate de bază în cadrul TLM apare civilizaţia. Prin urmare, trebuie să clarificăm cum se soluţionează chestiunea puterii şi a purtătorilor acesteia, dar şi cea a suveranităţii, în cadrul unui fenomen ca civilizaţia.

Este vorba despre o problemă deloc simplă, cum ar putea părea la prima vedere. Cunoaştem că civilizaţia constituie un fenomen complex, a cărei descriere matematică şi geometrică necesită recurgerea la principiul nonlinearităţii. Anume în asta constă deosebirea de principiu a civilizaţiei faţă de statul naţional, apărut în Modernitate ca o realitate strict raţionalizată, schematică şi reducţionistă, prezentă în majoritatea teoriilor RI. Şi doar teoriile postpozitiviste au început să relativizeze treptat această schemă lineară, ce domina în realism şi liberalism şi, cu anumite modificări de principiu, în marxism. Caracterul nonlinear al proceselor şi complexitatea actorilor în modelele turbulente ale relaţiilor internaţionale prezente în Postmodernitate sunt prezentate de o manieră mult mai primitivă, simplificată şi predictibilă în comparaţie cu civilizaţia. Teoriile postpozitiviste au în orice caz drept limită conceptuală indivizii (de aici şi ideologia drepturilor omului). Individul atomizat constituie pilonul conceptual al statelor naţionale şi al democraţiilor, dar şi al societăţii civile şi al multitudinilor postmoderniste ale alterglobalismului. În toate cazurile, acest individ atomizat este prezentat în baza antropologiei occidentale, este conceptualizat în lumina reprezentărilor clasice moderne şi postmoderne. Altfel zis, drept limită a unor sisteme complexe şi turbulente apare individul în calitate de concept construit după croiala sociologiei vest-europene4. Prin urmare, toate calculele în jurul problemei purtătorului suveranităţii sunt elaborate, într-un fel sau altul, în jurul acestui concept. Atomii se pot grupa în cele mai ciudate şi complexe moduri, însă de fiece dată orice compoziţie se reduce la un cod digital, ce se supune unui calcul statistic. Oricare ar fi instanţa suveranităţii, ea este calculată şi definită în baza individului în calitatea lui de concept specific central al sociologiei şi antropologiei occidentale. Puterea este un fenomen uman şi individual.

Însă pluralismul civilizaţional surpă terenul unei astfel de conceptualizări. Diverse civilizaţii operează cu constructe antropologice diferite, de cele mai multe ori acestea nu se descompun în indivizi atomizaţi. În diverse civilizaţii, omul poate apărea în orice ipostază, dar nu şi în cea de unitate independentă şi identică cu ea însăşi. De cele mai multe ori, ele reprezintă o funcţie conştientizată şi explicită, ce derivă din întregul corp social (anume pe acest principiu se bazează sociologia lui Durkheim şi a urmaşilor lui, antropologia culturală a lui F. Boas şi a discipolilor săi, precum şi structuralismul lui C. Levi-Strauss). Prin urmare, în fiecare civilizaţie structura puterii şi formalizarea ei reflectă specificul organizării ansamblului holistic, care poate fi diferită în fiecare caz aparte.

Principiul de castă al hinduismului are prea puţin în comun cu democraţia religioasă islamică sau cu ritualismul chinez. În plus, aceleaşi baze religioase pot produce conceptualizări diferite ale puterii în relaţia ei cu societatea şi cu fiecare om aparte. În civilizaţia creştină vedem (cel puţin) două modele medievale diferite ale statului normativ: simfonia puterilor în Bizanţ (ale căror ecouri se resimt în mod clar în ţările ortodoxe şi, în special, în Rusia) şi cezaro-papismul augustinian, caracteristic Occidentului catolic. După Reformă, la acestea s-a adăugat un spectru larg de conceptualizări protestante a naturii puterii, de la monarhia luterană până la calvinismul profetico-liberal şi anabaptismul escatologic.

Iată de ce este nevoie ca puterea să fie examinată din capul locului ca fenomen fractal nonlinear în contextul civilizaţiilor, ce reflectă geometria originală a fiecărui „holos” (întreg) social concret.

Desigur, în cadrul unei civilizaţii cineva trebuie să adopte decizii în chestiuni legate de relaţiile intercivilizaţionale, în particular legate de pace şi de război, de alianţe şi de denunţarea lor, de cooperare şi de schimburi, de interdicţii, cote şi tarife etc. Am putea numi această instanţă pol strategic al civilizaţiei. Anume acest pol strategic constituie polul lumii multipolare, deoarece lumea civilizaţiilor se deschide ca una multipolară anume ca urmare a intersectării intereselor sau a înregistrării conflictelor, care trec prin instanţa polului.

Un pol strategic trebuie să existe în orice civilizaţie. Existenţa lui transformă sistemul mondial în unul multipolar, dar locul şi conţinutul lui, ca şi structura şi legătura cu alte niveluri ale puterii din interiorul fiecărei civilizaţii, pot fi în fiecare caz diferite.

Un exemplu de astfel de sistem complex este modelul de adoptare a deciziilor în Iranul de azi, unde volumul suveranităţii este partajat în mod proporţional între puterea laică a preşedintelui şi structurile spirituale ale ayatolahilor. În Arabia Saudită, mejilisul, care este analogic parlamentului, reprezintă o platformă pentru adoptarea unor decizii consensuale ale celor trei forţe care domină în această ţară: numeroasa familie regală, liderii spirituali ai Islamului salafit şi reprezentanţii celor mai importante triburi beduine. În China de azi, totalitatea intereselor politice şi economice ale acestei ţări cu totul aparte este controlată şi reglementată de către Partidul comunist. În India, echilibrul între parlamentarismul laic de faţadă şi sistemul implicit de castă creează un model pe mai multe niveluri de adoptare a celor mai importante hotărâri. În Rusia, dincolo de faţada procedurilor democratice de tip occidental, este destul de stabil autoritarismul paternalist. Toate aceste forme reale de organizare a polurilor strategice sunt considerate din perspectiva standardelor occidentale ca fiind nişte „anomalii”, care trebuie să fie supuse „europenizării”, „occidentalizării”, „modernizării” şi „democratizării”, iar mai târziu şi lichidării în sistemul unei societăţi civile globale. Însă un asemenea proiect pare astăzi tot mai utopic chiar şi pentru cei mai consecvenţi apologeţi ai democraţiei planetare. În acest sens, este elocventă schimbarea opticii lui F. Fukuyama din ultimii ani, acesta recunoscând că aşteptările lui legate de „sfârşitul istoriei” au fost în mod evident pripite, deoarece în calea globalizării şi creării unui sistem liberal-democrat planetar stau încă destul de multe obstacole greu de depăşit pentru „a pune capăt istoriei” în timpul apropiat5.

Odată cu adoptarea modelului lumii multipolare, sistemele de putere, care îşi au rădăcina în particularităţile civilizaţionale ale societăţilor tradiţionale, vor pierde necesitatea de a se masca sub acoperirea standardelor democratice occidentale. Polul strategic al unei civilizaţii se poate manifesta deschis, recunoscându-se în mod explicit drept ceea ce este în mod implicit în majoritatea societăţilor non-occidentale. Însă în loc să resimtă pentru asta “mustrări de conştiinţă” în faţa modelului occidental (prezentat ca fiind o “normă universală”), civilizaţiile vor obţine posibilitatea de a-şi instituţionaliza propriile modele de guvernare în conformitate cu tradiţiile lor, cu voinţa acelor instanţe sociale care sunt considerate purtătoare ale autorităţii şi a dreptului pentru astfel de acţiuni.

Pluralismul civilizaţional prezent în TLM nu insistă deloc asupra lichidării democraţiei acolo unde aceasta există şi nici nu urmăreşte să împiedice apariţia şi maturizarea ei acolo unde nu există sau este slabă şi nominală. Prin urmare, TLM nu este una antidemocratică. Însă ea nici nu e adepta democraţiei ca normă, deoarece o serie întreagă de civilizaţii şi societăţi nu consideră că democraţia occidentală ar reprezenta o valoare şi nici că ar fi forma optimă de organizare social-politică. În societăţile unde această formă este acceptată şi derivă din tradiţia lor, realitatea respectivă trebuie privită aşa cum e. Adepţii democraţiei pot lupta pentru idealurile şi vederile lor după bunul lor plac. Ei ar putea învinge, dar s-ar putea să şi piardă. Aceste chestiuni trebuie decise în interiorul acestei civilizaţii, fără a se ţine seama de reproşurile sau încuviinţările din exterior.

Iată de ce polul strategic, care trebuie să existe în virtutea caracterului policentric al lumii multipolare, nu poate să aibă un conţinut politic uniform, ce ar fi analogic noţiunii de stat naţional în cadrul sistemului de la Westfalia. Acest sistem s-a clădit pe încrederea plină de optimism în universalitatea minţii umane, prin care se înţelegea (aşa cum s-a văzut mai târziu) o raţionalitate destul de specifică a omului european din perioada Modernităţii, considerată cu aroganţă drept „raţiune transcendentală”. Raţionalitatea europeană a Modernităţii, care seacă în mod vertiginos la ora actuală, s-a dovedit a fi din punct de vedere spaţial un fenomen istoric local. Anume deconştientizarea treptată a acestei realităţi este legată şi Postmodernitatea în ansamblu, dar şi procesul de erodare a sistemului de la Westfalia în particular.

TLM nu propune un nou universalism în domeniul determinării faptului cine anume trebuie să fie purtătorul puterii în noile unităţi de bază ale lumii multipolare. Dar nici nu cade într-un extaz haotic al iraţionalismului rizomatic, asemenea poststructuraliştilor. Civilizaţiile în calitate de structuri, ca limbaj, au tot temeiul să-şi desfăşoare propriile modele ale raţionalităţii, ale căror simetrie ierarhică, ce predetermină structura relaţiilor de putere şi, implicit, organizarea politică a societăţii, pot fi cele mai diverse.

Chestiunea puterii într-o lume multipolară se rezolvă astfel. Conturăm din exterior în cadrul fiecărei civilizaţii centrul ei strategic, care se manifestă drept subiect al dialogului în relaţiile internaţionale. Acest centru strategic constituie formalizarea civilizaţiei şi abrevierea ei metonimică în sistemul multipolarităţii. Însă structura şi conţinutul ei, relaţia cu straturile interne ale societăţii, volumul competenţelor şi caracterul legitimării, toate acestea pot varia în mod fundamental. Multipolaritatea nu admite ca această legitimare să fie apreciată din exterior, adică să emită din exterior judecăţi asupra legitimităţii puterii în cadrul civilizaţiei, diferită de cea căreia îi aparţine observatorul respectiv. Astfel, conceptul de centru strategic este destul de concret în exterior, în domeniul relaţiilor internaţionale, însă absolut liber în organizarea sa în interior, acesta putând fi modelat în conformitate cu codurile culturale ale fiecărei societăţi aparte, în funcţie de specificul propriei antropologii sociale şi politice.

Acest principiu ar putea fi numit drept „pluralitate a principelui”.

Din cartea lui Aleksandr Dughin „Teoria lumii multipolare”, în traducerea lui Iurie Roşca
___________________
1 Nicholas Onuf. World of Our Making: Rules and Rule in Social Theory and International Relations. Columbia: University of Soth California Press, 1989.

2 Buzan B., Little R. Internationa Systems in World History. Oxford: Oxford University Press, 2010.

3 Morin, E., Le Moinge, J.-L. L’intelligence de la complexite. Paris: L’Harmattan, 1999.

4 Dumont L. Essai sur l’individualisme. Une perspective anthropolgique sur l’ideologie moderne. Paris: Le Seiul, 1983.

5 Фукуяма Ф. Идеи имеют большое значение. Беседа с А. Дугиным / Профиль. 2007.

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LA GUERRA ALLA RUSSIA NELLA SUA DIMENSIONE IDEOLOGICA

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La Guerra contro la Russia è attualmente uno dei temi più discussi in Occidente. Ad oggi rappresenta ancora una suggestione ad una mera possibilità, ma può diventare reale sulla base delle decisioni che potranno essere adottate da tutti attori coinvolti nel conflitto ucraino: Mosca, Washington, Kiev, Bruxelles.
Non voglio discutere tutti gli aspetti e la storia di questo conflitto, qui. Propongo invece di comprenderne le radici ideologiche. La mia concezione è basata sul Quarto assunto della Teoria Politica che ho pubblicato nel 2012. Perciò non esaminerò la guerra dell’Occidente contro la Russia in termini di rischi, pericoli, temi chiave, costi o conseguenze, piuttosto sotto un profilo ideologico, dalla prospettiva dell’ideologia globalista.

 

Essenza del liberalismo

Nell’Occidente moderno esiste un’ideologia dominante che è quella liberale. Appare in diverse forme e versioni ma alla base la sua essenza è la medesima:

L’individuo è la misura di tutte le cose (individualismo antropologico)

Il mondo è orientato verso un futuro, rappresentando il passato il peggio (fede nel Progresso)

Lo sviluppo tecnico e le sue concrete applicazioni sono prese a riferimento assoluto per giudicare il livello di progresso di una società (tecnocrazia)

Il modello euro americano rappresenta lo standard a cui le altre società devono conformarsi (eurocentrismo)

L’economia di libero mercato è il solo modello di riferimento (essendo gli altri modelli da riformare o da eliminare)

La democrazia è il potere delle minoranze che devono difendersi dalle maggioranze, intrinsecamente portate a degenerare verso modelli totalitari

La classe media è il solo attore collettivo immaginabile (indipendentemente dal fatto che un individuo ne sia parte o no e in modo consapevole)

Globalismo (gli esseri umani sono ovunque gli stessi ed hanno un unico destino, ovvero il modello globalista che dovrebbe informare un contenuto universale di cittadinanza)

Questi sono i valori centrali del Liberalismo e rappresentano una delle tre tendenze originatesi dall’illuminismo, a fianco di comunismo e fascismo che hanno dato una propria interpretazione della Modernità. Nel XX secolo il Liberalismo ha sconfitto le altre due tendenze, e dal 1991 è divenuto l’ideologia imperante nel mondo.

L’unica libertà di scelta è fra Liberalismo di destra, Sinistra e Radicale con le sue rispettive varianti estremistiche. Di conseguenza, il Liberalismo è divenuto il modello operativo all’interno della società occidentale e di quelle altre che gravitano nella sua orbita. E’ divenuto il comun denominatore di ogni discorso “politically correct” ed il criterio distintivo per stabilire chi debba essere ammesso nel mainstream intellettuale dominante e chi, invece, debba essere marginalizzato o respinto. Lo stesso buonsenso è divenuto espressione del liberalismo.

Da un punto di vista geopolitico, il liberalismo è stato iscritto in un modello americanocentrico, in cui gli Anglosassoni hanno creato un nucleo su base etnica basato sulla partnership euroatlantica che rappresenta l’asse strategico del sistema di sicurezza globale. Quest’ultima è stata fatta coincidere con quella dell’Occidente e, in ultima istanza, con quella degli USA. Il Liberalismo quindi da un ambito ideologico tracima in quello politico, miliare e strategico. La NATO ha queste radici, difende le società liberali, e combatte per estendere il liberalismo in nuove aree.

 

Liberalismo come nichilismo

C’è una falla nell’ideologia liberale che apre una crisi dal suo interno: essa è alla radice nichilista. I valori difesi dal liberalismo si riconducono al primato della libertà. Essa però, nella concezione liberale, ha una connotazione negativa ovvero “libertà da – “e non “libertà di – “ed è qui la radice del problema.

Il liberalismo combatte contro tutte le forme di identità collettive e tutti i tipi di valori, progetti, strategie, scopi, metodi di tipo collettivo o comunque non individualista. Questa è la tesi su cui uno dei più importanti teorici del liberalismo Karl Popper – e a seguire, von Hayek – ha basato nel suo libro “La società aperta e i suoi nemici “sostenendo che i liberali dovrebbero combattere qualsiasi ideologia o filosofia politica – da Platone e Aristotele fino a Marx ed Hegel- che asserisca come una società debba avere uno scopo comune, un valore comune ed un comune significato (non è casuale che George Soros guardi a questo testo come alla propria Bibbia.

Qualsiasi scopo, valore e significato nella società liberale – o aperta – dovrebbe essere strettamente basato sull’individuo. I nemici della società aperta – cioè di quella occidentale dopo il 1991 – sono concreti. Primi nemici sono il Comunismo ed il Fascismo entrambi mersi dall’Illuminismo, e che contengono concetti antitetici quali quelli di Classe (Comunismo) razza(Nazismo) e Stato nazionale(Fascismo). L’origine del conflitto col Comunismo ed il Nazismo è ovvia. I Liberali rivendicano i diritti della società liberale davanti al Fascismo ed al Comunismo ed alla loro visione totalitaria. La battaglia del Liberalismo, come parte di un più ampio processo di liquidazione delle società non liberali, ha perfettamente senso: acquista rilievo nei confronti di ideologie che negano il più alto valore all’individuo.

Tuttavia la configurazione della libertà negativa non è chiaramente percepita qui. Il nemico della società aperta è concreto ed è ciò che da una parte dà ad essa una solidità intrinseca e dall’altra giustifica il processo di liberazione da approntare in altre società che non si trovino nella medesima condizione

 

Il periodo unipolare e la minaccia di implosione

Nel 1991, a seguito della caduta dell’URSS, alcuni occidentali e su tutti Fukuyama proclamarono la fine della Storia. In un certo senso era anche logico, non esisteva più alcun nemico per la società aperta e lo scontro con le altre matrici prodotte dall’illuminismo (Comunismo Nazismo e Fascismo) era stato vinto. Si era realizzato così il tempo dell’Unipolarismo (Krauthammer) ed il periodo fra 1991 e 2014, nel mezzo del quale Bin Laden aveva scatenato l’attacco alle Torri Gemelle, aveva visto il trionfo del Liberalismo i cui assiomi erano stati accettati anche da Cina (in termini economici) e Russia (in termini di ideologia e sistema politico): si distinguevano quindi i veri liberali da quelli che non lo erano ancora, da chi si sforzava di esserlo, da chi non lo era abbastanza, ecc. Quindi tutto il mondo era liberale con la sola eccezione di Iran Corea del Nord.

Questo è stato il momento più importante nella storia del Liberalismo. Ha sconfitto i suoi nemici ma allo stesso tempo li ha perduti. Liberalismo è essenzialmente liberazione da e lotta contro tutto ciò che non è liberale (al presente o in prospettiva); esso però ha acquisito il suo contenuto dai suoi nemici. Quando la scelta si è posta fra libertà e mancanza di essa (come rappresentata nelle società totalitarie) molti hanno scelto la libertà non comprendendo libertà per cosa o per fare cosa… Quando c’è una società illiberale, il liberalismo è positivo, comincia a mostrare il suo volto negativo dopo la vittoria.
Dopo la vittoria del 1991, il Liberalismo ha iniziato il suo processo implosivo. Dopo avere confitto Fascismo e Comunismo, è rimasto solo senza alcun nemico da combattere. Quando i suoi conflitti interni sono esplosi coi suoi ultimi residui non liberali (sessismo, scorrettezza politica, diseguaglianza fra sessi, il residuo di intervento nella sfera individuale da parte di istituzioni quali Stato e Chiesa), il Liberalismo non ha più avuto alcun nemico esterno da cui liberarsi: il suo trionfo ne rappresenta quindi paradossalmente la sua morte.

Questo è alla base delle sue crisi finanziarie del 2000 e del 2008: i successi e non i fallimenti della nuova economia di turbocapitalismo – per usare un’espressione di Luttwak – sono causa del suo collasso.

La libertà di fare ciò che si vuole rapportata ad una scala individuale provoca un’implosione della personalità: è la libertà di fare qualunque cosa ed il Liberalismo diventa l’Impero in cui il Nulla trionfa. Il Postmoderno prepara il terreno per riciclare in chiave storica un non senso autoreferenziale.

 

L’Occidente alla ricerca di un nemico

Ci si può chiedere cosa diavolo abbia a che fare tutto questo con la Russia. Rispondo.
Il liberalismo ha continuato ad occupare la scena su scala globale e ora ha cominciato ad implodere. Dal 1991, questo è un fatto inoppugnabile. E’ arrivata al punto terminale e si sta autoliquidando: immigrazioni di massa, scontri di culture se non di civiltà, crisi finanziarie, terrorismo, crescita del nazionalismo etnico, sono tutti indicatori di un Caos ormai incipiente che mette in pericolo qualsiasi ordine, compreso quello liberale. Più il liberalismo riesce a realizzarsi e più getta le fondamenta della sua stessa fine: ci confrontiamo con l’essenza nichilista del liberalismo, con la sua libertà fine a sé stessa e anodina – quindi nulla – che sta alla sua base.

L’antropologo tedesco Gehlen ha definito l’uomo-in questo contesto – come deprivato della sua umanità (Mangelwesen). L’uomo in sé stesso è nulla, derivando la sua identità dalla sua relazione con la società, la storia e la politica. Se l’uomo ritorna alla sua essenza, non può alla lunga riconoscere alcunché. L’abisso si nasconde dietro i detriti di sentimenti, di vaghi pensieri e desideri. La virtualità delle emozioni sono un velo sottile, dietro il quale v’è solo oscurità. L’esplicitazione della sua base nichilistica è l’ultimo obiettivo conseguito dal liberalismo ed è al contempo la fine dei padroni dell’istanza globalista che poggia sul liberalismo e, conseguentemente, dell’ordine liberale stesso.

Per salvarsi, l’élite liberale ha bisogno di fare un passo indietro. Il Liberalismo riacquisterà il suo pieno significato solo quando si confronterà con una società non liberale. Questo passo indietro è il solo mezzo che rimane per salvare ciò che rimane dell’ordine prodotto dal liberalismo, e per salvare il liberalismo da sé stesso. Perciò la Russia di Putin appare al suo orizzonte. La Russia non è anti liberale, né totalitaria, né nazionalista, né comunista, neppure troppo liberale, né radicalmente anti comunista. Sta diventando liberale seguendo la via gramsciana di aggiustamento rispetto all’egemonia globale, secondo lo schema di trasformismo secondo il linguaggio gramsciano

Comunque nell’agenda di liberalismo globale rappresentato dagli USA e dalla NATO, ci sarebbe bisogno di un altro attore, per un’altra Russia che giustificherebbe il campo liberale aiutando l’Occidente a mobilitarsi come di fronte ad una minaccia di un conflitto: ciò salverebbe il Liberalismo dalla sua essenza nichilista e quindi dalla sua inevitabile fine. Questa è la vera ragione per cui l’Occidente ha bisogno della raffigurazione di un Putin cattivo, di una Russia cattiva e di una guerra: è l’unico modo che ha l’Occidente di preservare il proprio ordine. Nella sua rappresentazione ideologica, la Russia giustificherebbe l’esistenza del liberalismo perché darebbe incarnazione ad un nemico in grado di dare un senso alla lotta della società aperta, con ciò aiutando a prolungarne il consolidamento in una dimensione globale.

L’Islam radicale rappresentato da al Qaeda è stato un ottimo candidato ma mancava di una statura sufficiente per divenire un nemico reale, è stato usato ma solo su una scala locale. E’ servito per giustificare l’attacco in Afghanistan, l’occupazione dell’Iraq, la cacciata di Gheddafi, per cominciare una guerra in Siria ma è ideologicamente troppo debole per rappresentare una sfida all’ordine liberale.
La Russia invece, anche su un piano storico, si presta a tale ruolo di nemico per l’ordine anglosassone anche perché la memoria della Guerra Fredda è ancora molto viva e l’odio verso la Russia è facilmente provocabile. Questo mi induce a ritenere che la guerra con la Russia sia possibile, proprio perché tale operazione si presta meglio al salvataggio dell’ordine liberale
Salvare l’ordine liberale

Considerando i differenti livelli di questa idea di una possibile guerra con la Russia, suggerisco questi pochi punti.

1. Una guerra con la Russia aiuterà a ritardare l’incipiente disordine su scala globale. La maggioranza dei paesi che sono coinvolti nell’economia liberale e che condividono gli assiomi e le istituzioni della democrazia liberale, e che sono direttamente o indirettamente sotto il controllo di USA e NATO, formeranno un fronte unico contro la Russia antiliberale di Putin: questo servirà a riaffermare un’identità liberale altrimenti destinata a dissolversi a contatto con la sua essenza nichilista.

2. Una guerra con la Russia rafforzerebbe la NATO e sopra tutti i suoi membri europei che sarebbero ancora più in soggezione di fronte all’iper potere militare statunitense. Di fronte all’incombente forza russa del Male, gli Europei rinsalderebbero la loro lealtà verso gli USA visti ancora come salvatori e protettori: il ruolo statunitense nella NATO verrebbe riaffermato.

3. L’UE sta fallendo. Una fantomatica minaccia dalla Russia potrebbe evitare una frantumazione, mobilitando le società e rendendole entusiasticamente disponibili a difendere le loro libertà e i loro valori dalle mire imperiali russe.

4. Il governo illegittimo di Kiev ha bisogno di una guerra per giustificare i fatti di Maidan e nascondere i misfatti relativi, a livello giuridico e costituzionale, permettendo la sospensione della democrazia che costituirebbe un ostacolo all’esercizio della sovranità nei territori filorussi del Sud Est del Paese, così al contrario per restaurare la propria forza con ogni mezzo.

L’unico paese che in questo momento non vuole la guerra è la Russia che però non può permettersi il lusso di lasciare l’Ucraina – un paese che ha metà degli abitanti della Russia- nelle mani di estremisti radicali anti russi, pronti ad esercitare ritorsioni verso le popolazioni russofone: se accadesse una cosa simile, per Putin sarebbe la fine sul piano interno ed internazionale, così dovrà rassegnarsi ad accettare la guerra senza altro obiettivo che vincerla.

Non mi piace speculare sugli aspetti strategici, materia adatta ad analisti più qualificati di me. Mi interessano invece la dimensione ideologica di questa guerra.

 

Ingabbiare Putin

Il significato di questa guerra contro la Russia è l’ultimo sforzo del liberalismo globalista per salvarsi dall’implosione. Perciò, i liberali hanno bisogno di definire ideologicamente la Russia di Putin – e ovviamente di identificarla col nemico della società aperta. Tuttavia nel dizionario moderno delle ideologie vi sono solo Liberalismo, Comunismo e Fascismo. E’ chiaro che il liberalismo è rappresentato da tutte le nazioni coinvolte nel conflitto, eccezion fatta per la Russia (gli USA, gli stati membri della NATO, e il governo golpista uscito da Maidan in Kiev), rimangono solo Fascismo e Comunismo perciò Putin viene rappresentato come un ex sovietico revanscista, un ritorno del KGB: questo è il ritratto che viene venduto al pubblico occidentale più sottoculturato. Tuttavia alcuni aspetti della reazione patriottica russa (es. la difesa dei monumenti di Lenin, i ritratti e le memorie del coinvolgimento sovietico nella II Guerra Mondiale) potrebbero rafforzare questa ide in un’audience di questo genere. Nazismo e Fascismo sono stati rimossi da Putin e nella realtà dell’odierna Russia, ma il nazionalismo e l’imperialismo russo saranno evocati nell’ambito dell’immagine del Grande Male: per questo Putin è stato fatto passare per un nazionalista radicale, un fascista ed un imperialista, e questo farà molta presa sugli Occidentali. In questa logica, Putin potrà essere spacciato allo stesso tempo per fascista e comunista, per nazionalista bolscevico (anche se questo è già più difficile da far digerire al pubblico occidentale). E’ chiaro che Putin non sia né un fascista, né un comunista ma solo un politico pragmatico nel regno delle relazioni internazionali, e questa è la ragione per cui Putin ammira Kissinger da cui è ricambiato.

Egli non ha alcuna ideologia ma sarà costretto ad assumere quella che gli è stata assegnata e non per sua scelta, ma queste sono le regole del gioco. Nel corso di questa guerra Putin sarà inquadrato in questo modo e questo è l’aspetto più interessante di questa situazione.

La principale idea che i liberali tenteranno di avanzare sarà definire ideologicamente Putin in base alle ombre del passato, come un vampiro: “A volte ritornano “, questa è la logica seguita per evitare l’implosione del liberalismo.
Il messaggio innanzitutto da lanciare sarà che il liberalismo è ancora vivo e vegeto, perché c’è qualcosa da cui dobbiamo essere liberati, ovvero dalla Russia. Lo scopo è dapprima liberare l’Ucraina e poi in senso lato, l’Europa e il resto dell’umanità dipinta come ostaggio della Russia; ed infine la Russia stessa che dovrà essere salvata dalla sua identità non liberale: così abbiamo un nemico che dà ancora una volta al Liberalismo una ragion d’essere.

Così la Russia verrà rappresentata come un residuo dell’era pre moderna ancora sopravvissuto nel presente: senza tale sfida, non c’è più vita nel liberalismo, nell’ordine globale e tutto ciò che vi è associato o scompare o implode. Con questa sfida, la Russia è chiamata paradossalmente a salvare l’ordine liberale ma perché ciò accada è necessario sai rappresentata come qualcosa di arcaicamente pre moderno e all’uopo tutte le categorie di Fascismo, Comunismo e Nazional Bolscevismo andranno benissimo. Il compito è quella di inquadrare la Russia in una cornice questa è la regola del gioco.

 

La Russia post liberale: la prima guerra secondo il la Quarta Teoria Politica

In conclusione ciò che propongo è il seguente schema.
Noi dobbiamo contrastare ogni tentativo di inquadrare la Russia in un cliché di potenza pre moderna. Dobbiamo rifiutare l’idea che i liberali salvino sé stessi dalla fine implicita nel loro sistema. Piuttosto che aiutarli a ritardare questo esito, dobbiamo accelerarlo e perciò dobbiamo presentare la Russia come una forza rivoluzionaria che lotta per un’alternativa da offrire ai popoli del pianeta. La Guerra russa non sarà solo per i suoi interessi nazionali, ma per un mondo multipolare, per una reale dignità, per una libertà reale e positiva, non nichilistica ma creativa. La Russia deve porsi come forza in grado di difendere la Tradizione ed i suoi valori organici e rappresenterà la liberazione dalla società cosiddetta aperta e dei suoi reali beneficiari – l’élite globale finanziaria.

Questa guerra non sarà contro l’Ucraina o una parte della sua popolazione, neppure contro l’Europa. Sarà contro il mondo liberale ed il suo (dis)ordine: noi non abbiamo intenzione di salvare il liberalismo per renderlo libero di portare a termine i suoi progetti, noi abbiamo intenzione di ucciderlo una volta per tutte.

La Modernità è sempre stata essenzialmente sbagliata, e noi siamo al punto terminale di questa modernità: per coloro che si sono arresi ad essa, o di essa hanno fatto il proprio destino, o se ne sono lasciati attraversare inconsapevolmente, ebbene questa nostra decisione segnerà la loro fine, ma per coloro che sono dalla parte della Verità Eterna, della Tradizione della Fede e della spirituale ed immortale essenza umana la nostra decisione rappresenterà un nuovo inizio, l’Assoluto Principio.

La più importante battaglia è per la Quarta Teoria Politica, è la nostra arma e noi abbiamo bisogno di impedire ai liberali di realizzare il loro desiderio di incasellare Putin e la Russia nella maniera loro più congeniale, e così facendo riaffermeremo la Russia come prima potenza post liberale che combatte contro il nichilismo liberale nell’interesse di un futuro aperto, multipolare e veramente libero nella sua essenza.

(Geopolitika.ru, 13 marzo 2014. Traduzione di Corrado Fontaneto)

 

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ALEKSANDR DUGHIN: TEORIA LUMII MULTIPOLARE (8)

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CAPITOLUL 2.

BAZELE TEORETICE ALE LUMII MULTIPOLARE

Urmare din numărul precedent.

Soluţia

O astfel de abordare fractală reprezintă un principiu de bază al Teoriei Lumii Multipolare (TLM), aplicat în raport cu toate celelalte teme clasice ale Relaţiilor Internaţionale (RI), care ţin de suveranitate, legitimitatea actorilor, legalitatea procedurilor în relaţiile internaţionale etc.

În toate cazurile, un răspuns corect ar presupune apelul la unicitatea specificului social şi cultural al fiecărei civilizaţii şi, concomitent, absenţa oricărei proiecţii apriorice. TLM îi reclamă unui teoretician o apercepţie civilizaţională maximă, altfel zis capacitatea de a reflecta propria apartenenţă faţă de acea civilizaţie, în numele căreia se efectuează analiza relaţiilor internaţionale, precum şi pătrunderea în sistemul valoric al civilizaţiei supuse analizei. Aici sunt pe deplin relevante rigorile impuse antropologiei culturale, care intenţionează să studieze o societate arhaică. Pentru asta este necesar:

Ÿ cunoaşterea limbii;

Ÿ o observare atentă;
Ÿ moratoriu faţă de concluziile pripite şi comparaţiile de ordin moral a ceea ce e străin cu ceea ce îi e propriu culturii cercetătorului;

Ÿ lipsa unor opinii preconcepute şi prejudecăţi faţă de cultura supusă studiului;

Ÿ intenţia sinceră de a înţelege cum interpretează membrii societăţii respective lumea din jur, instituţiile sociale, tradiţiile, simbolurile, ritualurile etc.

Toate aceste aspecte sunt sistematizate în mod strălucit şi fundamentate de către F. Boas şi de continuatorii lui.

TLM îi cere unui politolog specializat în relaţii internaţionale deprinderi din domeniul antropologiei sociale şi culturale, fără de care nicio concluzie a acestuia ce ar ţine de structurile politice ale civilizaţiilor şi de interacţiunea dintre aceste structuri n-ar fi valabile şi n-ar dispune de vreo valoare ştiinţifică.

Chestiunile legate de problema suveranităţii, a purtătorului şi a structurii acesteia necesită o conştientizare prealabilă a câmpului civilizaţional.

Drept instrument comod pentru fixarea locului unde se află polul strategic al civilizaţiei poate fi folosită procedura propusă de C. Schmitt pentru definirea suveranităţii. „Suveran este cel care ia decizii în condiţii de stare excepţională”, susţine acesta. Starea excepţională reprezintă acea situaţie în care codul legal ce reglementează chestiunile de guvernare în condiţii obişnuite încetează să mai funcţioneze şi nu mai poate servi drept temei pentru alegerea unui sau altui comportament, ce ar presupune participarea unui grup mare de oameni şi consecinţe sociale de proporţii. Această definiţie a lui C. Schmitt reprezintă un instrument potrivit pentru localizarea centrului puterii în condiţii istorice problematice. Dacă e să facem uz de acest criteriu, atunci imediat ce observăm luarea deciziei în situaţii extraordinare, obţinem în mod automat localizarea polului suveranităţii. Cel care ia decizii în situaţii extraordinare este suveran chiar şi în cazul în care nu dispune de suficientă legitimitate. Şi dimpotrivă, cel care nu ia decizii în situaţii excepţionale, nu este suveran, chiar dacă posedă legitimitatea formală.

Astfel ies în vileag parametrii concreţi, necesari pentru determinarea locului unde se află instanţa suverană, şi asta practic în orice sistem politic: atât acolo unde puterea acţionează deschis şi transparent (potestas directa), cât şi acolo unde acţionează indirect şi secret (potestas indirecta)1. Tocmai de aceea, în cadrul unei civilizaţii (cu caracterul ei indefinit şi complexitatea păturilor sociale în interiorul contextului general) locul unde se află suveranitatea, principele, este determinat prin intermediul localizării originii deciziilor ce se iau, iar nu viceversa. Cel care ia decizii în situaţii extraordinare, acela şi este principele, acela şi este purtătorul suveranităţii.

Această observaţie vizând actul decizional ne permite să privim civilizaţia ca pe un sistem deschis pentru istorie şi înzestrat cu o puternică energie existenţială. La un moment dat, orice civilizaţie aflată în tumultul lumii multipolare este nevoită să ia decizii. Şi de fiecare dată instanţa ce adoptă această decizie poate ieşi la suprafaţă (la modul teoretic) în segmente diferite ale civilizaţiei. Această situaţie complică profund structura dreptului internaţional, făcând-o parţial spontană şi „ocazională” (ad-hoc). Însă, în acelaşi timp, asta eliberează stihia existenţei istorice, naturală şi încărcată cu putere interioară (potestas), de necesitatea de a sparge în permanenţă sistemul normelor legale înţepenit, care se transformă în limitări şi care împiedică cursul istoriei vii şi imprevizibile.

Aici noţiunea de haos în relaţiile internaţionale, prezentă şi în cadrul paradigmelor clasice, este cât se poate de potrivită şi relevantă. În cadrul TLM, mediul relaţiilor internaţionale reprezintă un haos în măsura în care permite deciziei să se manifeste în orice punct al civilizaţiei, previzibil sau nu. Canalizarea procesului decizional, ca şi temperarea stihiei acestuia, formalizarea şi legitimarea puterii, toate acestea reprezintă elemente interne ale fiecărei civilizaţii. Însă din punct de vedere teoretic este nevoie ca suveranitatea să fie privită nu ca o reglementare de drept, ci ca o funcţie ce reiese din însuşi faptul deciziei, adoptate în situaţii excepţionale. Într-un asemenea caz, polurile strategice ale civilizaţiilor vor avea de a face în permanenţă cu o serie de provocări spontane, iar drama istoriei va căpăta un caracter consistent, organic şi dinamic, spre deosebire de acea rutină (militară sau pacifistă) în care s-au transformat relaţiile internaţionale în epoca Westfalia sau în condiţiile lumii bipolare, ale cărui apogeu trist îl reprezintă utopiile lipsite de vlagă ale globalizării.

Punctul de adoptare a deciziile în situaţii excepţionale reprezintă concentrarea spiritului istoriei; nu o dispersie a dorinţelor de ordin anatomic, ci o ascensiune pe verticala unui proces istoric intens.

 

Elitele şi masele

Practic, aceleaşi lucruri se pot spune şi cu referire la stratificarea socială a civilizaţiilor şi conturarea în interiorul lor a claselor de sus şi de jos, a elitelor şi maselor (după V. Pareto). Geometria părţii de sus şi a celei de jos a societăţii poate varia în cadrul fiecărei civilizaţii. Holismul societăţilor nonoccidentale poate fi de castă, de grup, teocratic, etnic, monarhic, democratic, mixt, de orice fel. La modul teoretic, am putea presupune că şi societatea occidentală se poate transforma în orice fel, deşi, în baza observaţiilor de ordin empiric, am putea presupune că aceasta îşi va păstra şi în viitor principiile sale individualiste şi liberal-democratice, precum şi tendinţele spre o dispersie a corpului social în direcţia atomizării şi a societăţii civile. Şi este dreptul absolut al Occidentului să-şi organizeze societatea în acord cu propria voinţă. Însă democratizarea şi dispersia competenţelor puterii nu anulează inegalitatea socială şi distanţa enormă între elita super-bogată şi toţi ceilalţi cetăţeni. Tocmai de aceea, inegalitatea de clasă, camuflată cu insistenţă pe parcursul sec. XX cu creşterea clasei medii, care s-a încetinit considerabil în ultima vreme, constituie, la rândul său, elitele şi masele din Occident în spiritul acelor ierarhii care au fost descrise detaliat şi supuse criticii de către marxişti. Elitele şi masele Occidentului se formează pe criterii de clasă. Occidentul consideră această stare de lucruri ca fiind una „normală” şi „echitabilă”, respingând celelalte forme de ierarhizare ca fiind „inumane”, „barbare” şi „nedemocratice”.

În raport cu propria societate, Occidentul are tot dreptul să adopte orice decizie politică. Dar în raport cu societăţile nonoccidentale, în condiţiile unipolarităţii, Occidentul îşi epuizează competenţele de procuror moral. Oamenii care aparţin culturii europene a Modernităţii consideră că inegalitatea materială este „echitabilă”, iar cea socială nu. Iar reprezentanţii altor civilizaţii, ca, de exemplu, cea indiană, împărtăşesc o cu totul altă opinie. Logica dharma şi legile artha îl conduc pe un indian spre o echitate de cu totul altă natură: este echitabil să urmezi tradiţia, inclusiv pe cea de castă, şi este inechitabil să o încalci. Un sărac virtuos, care îndeplineşte karma, se reîncarnează într-o altă lume. Un bogătaş neisprăvit are toate şansele să se reîncarneze într-un porc. Şi aşa este echitabil să fie. Iar invazia criteriilor occidentale în structurile societăţii tradiţionale reprezintă culmea inechităţii şi o practică tipic colonială şi rasistă la originile ei.

La fel de inechitabilă pentru musulmani este şi perceperea procentului bancar (deoarece timpul aparţine lui Allah, iar banii nu pot naşte bani în timp; aşa ceva constituie un sacrilegiu, un atentat la prerogativele Dumnezeului lumilor). Stratificarea lumii islamice li s-ar putea părea inacceptabilă indienilor, iar chinezii confucianişti ar putea găsi în budism „un anarhism voalat” sau „ceva asocial”.

Elitele şi masele, cei de sus şi cei de jos există în orice civilizaţie. Acestea îşi au propriile funcţii în întregul corpului social în conformitate cu configuraţia normativă a acestui corp. În anumite cazuri, ele ar putea exercita o influenţă asupra politicii externe şi să apară în rolul de „grupuri competente” (spre deosebire de convingerea realiştilor clasici că X-individul, reprezentantul masei, posedă o competenţă nulă în chestiunile de ordin internaţional). Însă în alte cazuri, ele nu pot avea o astfel de influenţă, şi atunci partea lor de influenţă asupra relaţiilor internaţionale este infimă. Asta depinde de fiece dată de fiecare civilizaţie aparte. În cadrul TLM, atât concepţiile neoliberale despre creşterea continuă şi garantată a competenţei maselor în relaţiile internaţionale, cât şi scepticismul realiştilor în această chestiune, sunt inacceptabile.

Stratificarea socială în cadrul civilizaţiilor nu reprezintă o problemă de ordin internaţional, nu are o problemă de ordin universal, nu dispune de o formă universală şi se manifestă prin intermediul centrului strategic al civilizaţiei, oricât de bizar ar fi constituit acesta: guvern, parlament, împărat, partid de guvernământ, reuniunea liderilor spirituali etc. Aceste centru devine legitim datorită corpului social, graţie holosului civilizaţional.

 

Dialogul şi războiul civilizaţiilor

Să descriem acum în linii mari cum tratează TLM chestiunea războiului în RI. Războiul este trăsătura istoriei umane şi un eveniment prezent mereu pe parcursul ei. Mai mult decât atât. Potrivit concepţiei universal acceptate, anume războaiele şi revoluţiile dau sens istoriei. Practic toate statele cunoscute au fost create în urma războaielor sau au apărut în timpul unor campanii militare. Şi tot războaiele au pus temelia tuturor grupurilor de elită. Potrivit lui Heraclit, războiul „este tatăl tuturor lucrurilor; în unii el descoperă duşmani, în alţii – oameni, în unii – pe robi, în alţii – pe cei liberi”. Polisul ca stat şi politica în calitate de proces de dirijare a polisului au fost dintotdeauna strâns legate de stihia războiului, atât în chestiuni de organizare internă, cât şi în cazul asigurării sarcinii principale de asigurare a securităţii, dar şi din punctul de vedere al perspectivelor unor campanii de cucerire îndreptate împotriva unui sau altui inamic extern.

A tinde spre dispariţia războiului este una cu a râvni anularea istoriei sau dispariţia omului şi a societăţii umane. Minimalizarea riscurilor războiului sau debarasarea totală de el poate fi sarcina anumitor culturi, tipuri sociale sau de gender (femeile nu sunt predispuse spre stihia războiului şi îl privesc ca pe o catastrofă şi un fenomen pur negativ). Însă studierea istoriei societăţilor umane arată că pacea, ca şi războiul, sunt fenomene ce se succed în mod ciclic, ce se perindă unul după altul într-o anumită ordine, oricât de scurte sau lungi ar fi intervalele între ele.

Iată de ce TLM nu exclude posibilitatea unor războaie (ciocniri) între civilizaţii, însă, în acelaşi timp, nu consideră că acesta ar fi singurul scenariu.

Aici ar trebui să apelăm la conceptul de dialog. Dialog înseamnă în greacă „conversaţie întreţinută cu altcineva”, când expunerea este transmisă de la unul spre altul. Dialogul se poate manifesta prin cuvine, dar şi prin gesturi. Atât cuvintele, cât şi gesturile pot fi paşnice sau agresive, în funcţie de situaţie. Dialogul poate fi şi unul dur. În ultimă instanţă, şi războiul poate deveni o formă a dialogului, pe parcursul căruia o parte îi comunică într-o formă dură ceva anume celeilalte părţi.

Dialogul nu presupune în mod necesar egalitatea interlocutorilor. Însăşi structura limbii este una ierarhizată, de aceea rostirea frazelor în cadrul unui dialog poate să aibă caracterul desfăşurării voinţei de putere sau cel al strategiei de dominaţie. Asta confirmă o dată în plus că războiul poate fi privit ca un dialog.

În TLM are loc anume un dialog între civilizaţii, care poate fi privit din două extremităţi: dialog paşnic şi nonpaşnic. Însă în orice caz este vorba anume despre un mesaj, despre comunicarea unuia cu celălalt, prin urmare, despre socializarea unei sau a câtorva civilizaţii concomitent în sistemul general al relaţiilor internaţionale. Civilizaţiile întreţin un dialog în permanenţă. Uneori el durează milenii întregi, pe parcursul cărora popoarele, culturile şi religiile se amestecă între ele, se împletesc, se apropie, se înghit reciproc, se separă şi se îndepărtează una de alta etc. Iată de ce este imposibil ca dialogul dintre civilizaţii să înceapă sau să înceteze. El are loc de la sine, întreaga istorie a omenirii poate fi privită ca un dialog continuu.

Însă civilizaţia devine actorul principal al relaţiilor internaţionale doar în anumite situaţii. Potrivit TLM, la ora actuală trăim anume o atare situaţie, prin urmare, structura dialogului dintre civilizaţii reclamă, la rândul său, o nouă înţelegere şi o reflecţie sporită. Acest dialog are nevoie anume acum de formalizare. În ce mod, despre ce şi pentru ce civilizaţiile poartă dialogul între ele?

Dialogul civilizaţiilor reprezintă constituirea perechii de bază noi şi ei, ceea ce constituie o trăsătură indispensabilă a oricărei societăţi. O societate poate să capete conştiinţa de sine doar în raport cu o altă societate, conştientizată ca fiind alta. Întrucât civilizaţia este cel mai complex sistem al societăţii, ce se constituie atât din straturi ierarhice, cât şi situate la acelaşi nivel, gradul de reflexie civilizaţională asupra propriei identităţi necesită un instrumentar special, mult mai complex decât modelele şi procedurile de identificare a altor unităţi de bază. Pentru propria afirmare, pentru a se contrapune pe sine alteia şi, respectiv, pentru formarea chipului celuilalt, identitatea civilizaţională necesită o reflecţie complexă de cel mai înalt nivel. De regulă, acest nivel se manifestă printr-o filozofie sau teologie aparte, prin tradiţie spirituală, concentrată în mediul elitelor intelectuale, dar care se difuzează spre toate păturile sociale până în adâncurile ei. Ceea ce este filozofie sau teologie pentru elite se transformă pentru mase în varietăţi tipice de mentalitate, de psihologie şi într-o medie culturală. Însă la toate nivelurile, de la conştientizarea acută a bazelor filozofice şi până la cele mai inerţiale şi neconştientizate clişee mentale şi psihologice – trecând prin evenimente istorice, reforme politice, realizări ale culturii şi ştiinţei, precum şi prin practica economică – identitatea civilizaţiei se afirmă, şi afirmându-se ca atare, contrastează în mod obligatoriu cu identitatea altor civilizaţii cu care se învecinează. Anume acesta este dialogul dintre civilizaţii: compararea permanentă a ceea ce e al său cu ce e străin, descoperirea unor trăsături comune sau, dimpotrivă, a unor diferenţe, preluarea unor elemente şi respingerea altora, descoperirea sensurilor sau mutaţii de ordin semantic, ce deformează elementele altei civilizaţii. În anumite cazuri, prezenţa celuilalt devine temei pentru războaie. În altele – dialogul se dezvoltă în mod paşnic şi constructiv.

Civilizaţiile poartă un dialog asupra echilibrului în permanentă redefinire a ceea ce este „al nostru” şi „al lor”, asupra identităţii şi alterităţii. Acest dialog nu are niciun fel de scop final, deoarece nu-şi propune să-l convingă pe celălalt de propria dreptate şi, cu atât mai puţin, de acceptarea imaginii celuilalt ca pe o normă pentru sine însuşi (deşi în anumite cazuri, de expansiune totală şi, dimpotrivă, de pasivitate totală, pot să apară şi astfel de scenarii). Dar sensul constă nu în atingerea vreunui scop, ci în însăşi existenţa dialogului, care în condiţiile unui proces istoric deschis se manifestă ca o succesiune de evenimente istorice, ce apar în domenii diferite, de la reforme religioase şi politice, naşterea unor teorii filozofice noi şi până la tulburări populare, răsturnări dinastice, campanii militare, cicluri de avânt şi recesiune economică, noi descoperiri, expansiuni şi contractări, migraţii etnice etc. La dialog participă întreaga structură multidimensională a civilizaţiei, el purtându-se la toate nivelurile ei.

Însă acest dialog se conturează în mediul elitei intelectuale, care este capabilă să reflecte de o manieră consistentă, să definească atât parametrii propriei identităţi, cât şi pe cei ai identităţii celuilalt. Anume elita configurează în cea mai mare măsură imaginea celuilalt, înzestrându-l cu anumite trăsături, desluşeşte în mod corect sau eronat blocurile semantice ale acelei civilizaţii, cu care se află în dialog.

Odată cu cristalizarea civilizaţiei, creşte considerabil şi rolul elitei intelectuale, care devine purtătoarea dialogului dintre civilizaţii nu pur şi simplu din inerţie, ci datorită însăşi funcţiei sale. Această funcţie capătă o importanţă internaţională deosebită, deoarece de structura dialogului între civilizaţii depinde însăşi structura relaţiilor internaţionale într-o lume multipolară. În timp ce polul strategic reprezintă instanţa de luare a deciziilor şi nucleul suveranităţii civilizaţiei, centrul de conţinut, l civilizaţiei, cel semantic, se concentrează în elita ei intelectuală, care în condiţiile multipolarităţii îşi sporeşte brusc statutul în domeniul relaţiilor internaţionale.

În cadrul dialogului dintre civilizaţii, elita intelectuală trebuie să realizeze sintetizarea tuturor celorlalţi factori: economici, tehnologici, materiali, logistici etc. Semnul, imaginea, conceptul, teoria filozofică, exegeza teologică reprezintă mesajul sintetic principal dinspre o civilizaţie spre alta. Şi de faptul cum va fi formulat acest mesaj în fiecare caz aparte va depinde, în mare măsură, istoria mondială, război sau pace, conflict sau cooperare, cădere sau avânt.

Dialogul despre care este vorba nu poate fi redus la concurenţă, la instaurarea unor relaţii hegemonice, la convingerea unora de justeţea altora etc. Dialogul civilizaţiilor reprezintă câmpul de manifestare liberă şi spontană a istoriei, una neprogramată şi imposibil de prezis, deoarece viitorul este privit într-un asemenea caz ca un orizont al gândirii şi al voinţei. Gândirea ţine de zona de competenţă a elitei intelectuale a civilizaţiei, iar voinţa – de polul strategic şi punctul de luare a deciziilor. Aceste două elemente formează laolaltă holograma civilizaţiei, concentrarea ei simbolică vie, plexul solar al nervilor civilizaţionali.

Nici puterea, nici economia, nici resursele materiale, nici concurenţa, nici securitatea, nici interesele, nici confortul, nici supravieţuirea, nici mândria, nici agresivitatea nu reprezintă motivarea de bază a existenţei istorice a civilizaţiei în condiţiile lumii multipolare, ci anume procesul dialogului spiritual, care poate căpăta la orice cotitură şi în orice condiţii atât un caracter pozitiv şi paşnic, cât şi agresiv şi războinic. Aşa cum scria Arthur Rimbaud, „Luptele spirituale sunt la fel de crude ca şi luptele între oameni”. Este evident că actuala civilizaţie occidentală a obosit de istorie şi nu se mai inspiră din orizonturile înalte ale libertăţii propuse de aceasta. De aici şi tendinţa de a-i pune capăt cât mai curând posibil, punând punct procesului istoric. Dar anume în asta şi constă specificul TLM, de a descoperi şi de a cuceri dreptul de a privi lumea, timpul şi epoca, nu doar cu ochii Occidentului; iar asta înseamnă că dialogul între civilizaţii este înţeles nu doar ca ceva mecanic, de rutină, ce ar avea doar un singur scop, „să nu fie război”, ci ca ceva consistent, viu, impredictibil, tensionat, plin de riscuri, având un final deschis şi necunoscut.

 

Diplomaţia: antropologia şi tradiţionalismul

În teoriile clasice ale RI este scos în evidenţă un grup special de persoane împuternicite, care se ocupă de planificarea şi realizarea politicii externe a statului. Importanţa acestuia în cadrul relaţiilor internaţionale este foarte mare, deoarece de competenţa şi eficacitatea diplomaţilor depinde într-o măsură considerabilă întreaga structură a relaţiilor internaţionale. Diplomaţii nu sunt cei care ar determina cursul politicii externe. Procesul decizional este la latitudinea şefului statului, a altui organ de conducere. Însă corpul diplomatic este cel care pune în aplicare aceste decizii, iar de felul în care fac față acestor sarcini diplomaţii depinde foarte mult. De aceea, în cadrul sistemului de la Westfalia ocupaţia de diplomat presupunea o pregătire specială, cunoaşterea unor ţări diferite şi a psihologiei naţionale, deprinderi de conduită speciale şi o anume manieră de a purta negocierile. De cele mai multe ori, diplomaţii reprezintă elita societăţii, fiind recrutaţi din straturile ei superioare.

Multipolaritatea pune în faţa corpului diplomatic rigori suplimentare. Relaţiile intercivilizaţionale se reduc la dialog. Pe timp de pace acest dialog se manifestă cel mai mult anume în acţiunile corpului diplomatic, care reprezintă o civilizaţie în faţa alteia. Tocmai de aceea, în contextul TLM capătă o nouă dimensiune calitativă: pe seama ei se pune misiunea întreţinerii dialogului intercivilizaţional. Aşa cum am văzut mai sus, răspunderea pentru acest dialog cade pe seama elitei intelectuale a civilizaţiei. Prin urmare, corpul diplomatic trebuie să fie parte integrală a acestei elite. Apartenenţa la elita naţională presupune un grad profund de reflecţie asupra identităţii propriei civilizaţii, incluzând toate straturile ei multidimensionale şi legităţile nonlineare ale acesteia. De aceea, exponentul elitei intelectuale trebuie să se remarce printr-o cunoaştere profundă a filozofiei (şi/sau a teologiei). Această cerinţă vizează din plin şi diplomaţii. Însă, în acelaşi timp, diplomaţii care apar ca exponenţi ai civilizaţiei trebuie să mai aibă încă o competenţă. Este vorba de capacitatea de a înţelege structura altei civilizaţii, cu care aceasta intră în dialog, prin urmare, şi de capacitatea de a însuşi sau de a recrea un sistem corect de transpunere (fie şi aproximativă) a sensurilor din contextul unei civilizaţii în contextul alteia. Pe lângă înţelegerea propriei identităţi, un diplomat al lumii multipolare trebuie să posede calitatea de a percepe şi o altă identitate, să o pătrundă cât mai adânc. Pentru asta e nevoie să posezi o topică specială, care ar putea fi aproximativ comună pentru cele mai diferite contexte civilizaţionale.

În acest sens, este nevoie să fie abandonat din capul locului hegemonismul occidental, care pretinde la o explicaţie universală a principiilor de bază de ordin sociologic, politic şi de viziune (în temeiul criteriilor şi normelor civilizaţiei occidentale). Versiunile occidentale ale disciplinelor umanitare (filozofie, istorie, sociologie, drept, politologie, culturologie etc.) sunt pătrunse totalmente de etnocentrism şi de tendinţa spre o hegemonie epistemologică. Iată de ce trimiterea la această bază ne scoate din contextul multipolarităţii, adică este inacceptabilă. Ea trebuie respinsă ca fiind una totalmente nepotrivită pentru formarea corpului diplomatic al lumii multipolare.

Din cartea lui Aleksandr Dughin „Teoria lumii multipolare”, în traducerea lui Iurie Roşca

articolo originale: http://www.flux.md/articole/15941/

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1 Carl Schmitt. Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. Berlin, 1938.

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EL PAPEL EDUCATIVO EN LA EPOCA DE INTERNET Y DEL MERCADO GLOBAL

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Un aspecto importante de la globalización, indudablemente, es que ha sido favorecida y acompañada de un amplio y vigoroso desarrollo tecnológico, vinculado especialmente a las llamadas “nuevas tecnologías de la información” e internet. La convergencia de los medios tecnológicos y la integración de las telecomunicaciones, como el cable, televisión e internet, auguran una nueva plataforma de comunicación en un futuro inmediato. El avance vertiginoso de las nuevas tecnologías de la información y la comunicación nos permiten no solamente ser receptores pasivos sino también protagonistas y emisores.
Al parecer, ha desaparecido el fantasma de la “agresión desde el espacio” que hace algunos años nos asustaba tanto y que era utilizado por grandes transnacionales que monopolizaban la información y la manipulaban de acuerdo a sus intereses, aunque actualmente ese peligro sea real en el ámbito financiero. Hoy en día , por lo menos en occidente, no estamos tan desarmados y muchos de nosotros podemos hacer llegar al mundo nuestro mensaje a través de un simple ordenador.
La globalización nos ha permitido, y muchas veces ha promovido, un cambio radical en la concepción de la “educación”, asociada a expresiones como “la era de la información”, “la supercarretera de la información”, o “la sociedad del conocimiento”. Existen múltiples universidades virtuales cuyos servicios se ofrecen a una comunidad mundial que rompe con la geografía de los esquemas estáticos, porque su misión no está focalizada en una ciudad o un país y cuyos programas formativos están diseñados bajo la concepción de globalidad. La educación global, sin embargo, nuevas formas de implantación técnica, significa un rol diferente para el maestro, docente o educador y una selección eficiente de nuevos contenidos educativos. En pocas palabras, se precisa un cambio de actitud importante en las instituciones respecto a las futuras medidas a adoptar en materia de política educativa.
En pocas palabras, se precisa que las instituciones adopten un cambio de actitud respecto a las futuras medidas a adoptar en materia de política educativa.
El enfoque de centro educativo, donde se sostuvo siempre que era posible encontrar o tener acceso a todos los recursos educativos necesarios para la formación del alumno, hoy está obsoleto porque los recursos educativos actuales se hallan en la vida cotidiana y distribuida por el mundo. En buena medida, este género virtual se viene abriendo paso con fuerza y ya no está relegado a unos pocos iniciados de la red, del consumo de información a través de red y a los “data-fagia”.
Paralelamente a lo anterior, cada día se ve incrementado significativamente otro comportamiento virtual: los proyectos colaborativos en la red. A medida que navegamos en internet, vamos descubriendo un sinnúmero de convocatorias e invitaciones personales e institucionales- para unirnos y compartir una idea, una actividad, un proyecto, una experiencia que una e integre la diversidad y que promueva joint-ventures de experiencias de interconexión educativa. Estudiantes y maestros de una escuela pueden así, mostrar su experiencia y realidad, y compartirla con gente de otras latitudes, y continuar juntos en una travesía virtual participativa, donde el aprendizaje de unos depende e interactúa con el aprendizaje de los demás. ¿Por qué no se integran estas modalidades educativas con el currículo de las escuelas convencionales por pequeñas que sean? S e podrían organizar eventos y actividades virtuales diversas. Pero nos asalta la cuestión de si los seres humanos son capaces de recibir y asimilar tanta información a la vez y a tanta velocidad.
Por otra parte , si concebimos la educación en un sentido amplio, su definición coincidirá en gran medida con el proceso de socialización. Los niños de hasta hace algunas generaciones adquirían nuestra lengua, nuestros valores, nuestras costumbres, nuestros conocimientos y nuestra forma de conocer situados en una cultura específica, con rasgos más o menos “sedimentados” y “estables”. Hoy, cada vez más, nuestros niños se socializan recibiendo la influencia multicultural de este mundo globalizado en el que estamos inmersos a través de los medios de comunicación (TV por cable, satélite, Internet, etc.) ¿Qué implicaciones tiene este hecho para la educación? ¿Se está abriendo paso un ciudadano universal?
Yo no lo creo: la socialización es débil y superficial, la influencia a menudo también pero se pueden satisfacer curiosidades y empezar a conocer usos. costumbres, personas, etc. ¿Estamos asimilando la “cultura universal”? Para enfrentarse, conocer y asimilar otras culturas necesitamos de un background cultural, educación, pasar tiempo juntos, etc. , ¿Qué papel juega la educación y los educadores en este contexto? Un papel muy importante, no sólo desde un punto de vista técnico, es decir enseñar a utilizar internet, sino, sobretodo, desde el punto de vista pedagógico; es decir, enseñar cómo utilizarlo en la materia especifica, cuando utilizarlo, cómo buscar, mediar, analizar y seleccionar las informaciones que están en la red.
¿Cómo volcar tales postulados en una política educativa adecuada,  en un ámbito mundial donde se ensalzan los criterios de Calidad total en todos los procesos?
Una premisa de nuestra época es la obtención de resultados, muchas veces a cualquier costo. En general se está abriendo camino la idea de que el sector educativo ahora requiere mayor dinero que antes. El fin está bastante claro, invertir en la educación, en instrucción para ser más precisos, de los niños de hoy para que aprendan lo que la sociedad necesitará de ellos mañana.
En definitiva, el mercado ha transformado al ciudadano en un nuevo cliente. Tal vez la principal función de la escuela debería ser la de forjar mejores ciudadanos, responsables, conscientes de sus derechos y deberes. Debería incluir la formación de un nuevo consumidor, no atado a modas pasajeras sino que exija libertad de elección, que incorpore criterios de selección hacia productos no obtenidos a través de la explotación humana o con técnicas de producción que atenten contra el medio ambiente. En breve, la escuela debería en su tarea educativo ayudar a repensar como adecuar los criterios de competitividad del neoliberalismo salvaje y darwiniano hacia una forma más humana y productiva.
El desafío está planteado y no es menor, los cambios son profundos e imparables, el sistema no reconoce fronteras y trata de imponerse y afianzarse en todo el mundo. Está en juego el futuro mismo de la Escuela y de nuestra sociedad.

SITOGRAFIA
http://ijoc.org/ojs/index.php/ijoc/article/view/46/35
http://www.ub.edu/prometheus21/articulos/obsciberprome/socinfsoccon.pdf
http://www.manuelcastells.info/es/obra_index_2.ht

*Cristiano Procentese (Napoli 1970) è docente di Filosofia e scienze sociali nelle Scuole secondarie di secondo grado della Provincia di Udine, membro del GIRCHE (Grup Internacional de Recerca “Cultura, Història i Estat”), nonché Dottorando di ricerca in Filosofia in cotutela con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e l’Università di Barcellona.

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LEVIATANO – RASSEGNA DELLA STAMPA ATLANTICA

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In questa settimana, la cronaca ha sicuramente sopravanzato qualsiasi altra considerazione. L’incontro di quattro ore avuto domenica 30 marzo (1) a Parigi fra Kerry e Lavrov ha lasciato ciascuna delle parti nelle rispettive posizioni. Gli USA vogliono il ritiro di tutte le truppe russe al confine, il ritiro dalla Crimea ed il coinvolgimento del (per loro) legittimo governo ucraino al tavolo delle trattative. Mosca reagisce negando ogni legittimità all’attuale governo, sostenuto da forze fasciste e non legittimato dal consenso popolare in alcun modo. Inoltre, Mosca reclama una configurazione del territorio ucraino in più stati indipendenti in modo da salvaguardare i diritti delle minoranze. Ciò non di meno, si sono registrate alcune riflessioni degne di essere portate all’attenzione. Partirei da quelle più eccentriche. La prima (2) di Fareed Zakaria – columnist di Fox TV, notoriamente sulle posizione del GOP in USA – secondo il quale in Crimea è avvenuta un ‘invasione da parte russa. Compito degli USA è dimostrare agli alleati che questi comportamenti – propri del XIX secolo- rischiano di far precipitare un ordine internazionale che-dal 1945 – ha visto il più basso numero di conflitti nella storia.

Ergo, la Russia è la vera fonte di destabilizzazione dell’Ordine (3) Internazionale. L’ altra, non meno sorprendente, è su Foreign Affairs (3), secondo il cui editorialista, data l’inanità delle sanzioni comminate da USA e UE, solo la sistematica rappresentazione della Russia quale paese instabile e inaffidabile davanti agli investitori, può nel lungo termine portare risultati concreti: non è dato a sapere come gli stessi investitori abbiano reagito di fronte alla decisione di Putin di imporre le transazioni , da e verso la Russia, col rublo il cui valore viene ancorato alle effettive e cospicue riserve auree del paese. Interessante invece l’analisi su Stratfor(4). Dall’incontro di Parigi, sono risultate semplicemente meglio definite le posizioni in campo di Russia e USA. La Russia ritiene che gli incidenti in Ucraina nei mesi scorsi siano stati fomentati dalle intelligence occidentali, senza il cui intervento tutto si sarebbe risolto in poco tempo, mantenendosi Yanukovich al potere. Non solo, dall’angolazione russa anche la stessa Rivoluzione Arancione avrebbe avuto la medesima connotazione: tutto questo porta a considerare gli USA come destabilizzatori della sfera di influenza storicamente acquisita dalla Russia nell’area.

Per gli USA, la Russia dispone di due leve. La prima militare, dato che gli USA riconoscono la propria inferiorità nella regione e questo è in definitiva il vero motivo che li induce a mantenere aperto il canale diplomatico, dato che vi vorrebbero ben più di sei mesi per mettere in piedi un apparato controffensivo credibile sul piano militare. In secondo luogo, l’alleato europeo economicamente e politicamente più potente – la Germania –ha relazioni speciali e dirette con Mosca, specie per ciò che concerne le forniture di energia e non è certo disposto a fare saltare per obiettivi poco chiari e confusi. In definitiva, secondo l’editorialista George Friedman, USA e Russia hanno bisogno ancora l’uno dell’altro. L’Europa è un soggetto misterioso e sfuggente, dove ognuno gioca per sé guardando ai propri interessi energetici, senza identità politica comune. La Russia potrebbe teoricamente soffiare sul vento nazionalista del Baltico (in area Nato) o, su un piano astratto pensare di invadere l’Ucraina ma sono opzioni poco realistiche, così come, per gli USA, tagliare fuori l’unica controparte sicura geopoliticamente quale la Russia. Sulla stessa linea è assestato anche John Beyrle, ex ambasciatore USA a Mosca con l’Amministrazione Bush, che, nell’intervista con Foreign Affairs(5), si domanda se la vicenda in Crimea rappresenti una delle fasi ricorrenti di “up & down “nelle relazioni russo americane, o costituisca un punto di rottura. Secondo il diplomatico, gli spazi per una composizione diplomatica sussistono anche in considerazione – non secondaria – che verso la Russia USA e UE hanno visioni completamente differenti sul modo di intendere la partnership. Interessante infine l’editoriale di Masha Gessen sul WP (6) che invitiamo a leggere parallelamente al saggio di Dugin, relativo alla dimensione ideologica della guerra contro la Russia, pubblicato giorni addietro su Eurasia. L’editorialista statunitense è la prima finora a mettere l’accento sulla visione che, a suo giudizio, anima Putin contro l’Occidente ovvero la difesa della Tradizione (un esempio su tutti, la guerra omofoba dichiarata e praticata manu militari dal Cremlino) contro il relativismo morale dell’Occidente: per la prima volta, si guarda oltre l’aspetto militare ed economico per comprendere cosa vi sia in atto realmente.

 

NOTE

(1) http://www.bbc.com/news/world-europe-26814651

(2) http://www.washingtonpost.com/opinions/fareed-zakaria-obama-pursues-the-right-response-to-russias-19th-century-behavior/2014/03/27/a7b8dc2a-b5df-11e3-b899-20667de76985_story.html

(3) http://www.foreignaffairs.com/articles/141076/tom-keatinge/sanctions-score

(4) http://www.stratfor.com/weekly/russia-and-united-states-negotiate-future-ukraine?utm_source=freelist-f&utm_medium=email&utm_campaign=20140401&utm_term=Gweekly&utm_content=readmore

(5) http://www.cfr.org/russian-federation/west-breaking-point-russia/p32681?cid=rss-analysisbriefbackgroundersexp-is_the_west_at_a_breaking_poin-032814

(6) http://www.washingtonpost.com/opinions/russia-is-remaking-itself-as-the-leader-of-the-anti-western-world/2014/03/30/8461f548-b681-11e3-8cc3-d4bf596577eb_story.html

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